Racconti dietro l'angolo

Piccole storie per raccontare

sabato 27 ottobre 2007

BRICIOLE



“Vien qua Pichino” bisbigliò con la voce dura a mascherare la tenerezza dell’intenzione lo zio Santi. Il piccolo Gino si acquattò furtivamente sotto il tavolo e il vecchio zio gli diede qualche pezzettino di carne. Gino non era un cane ma il più piccolo dei 12 bambini di casa Ginetti. Lo zio Santi era il fratello del nonno, un omone robusto con due baffi alla Stalin e la testa rasata a zero. Gino, che era uno scricciolo tutto orecchie e ossa spigolose, osservava incantato questo vecchio orco buono. La mattina, anche in pieno inverno, si gettava la brocca dell’acqua in testa e con un unico gesto, accompagnato da un sonoro grugnito, si passava la mano dalla nuca al mento.

Erano 26 in tutto e al momento di mangiare si seguiva la rigida regola patriarcale. Prima mangiavano gli uomini, seduti intorno al lungo tavolo. Le donne sbocconcellavano intorno al focolare, le più volte senza nemmeno sedersi, poi toccava ai ragazzi grandicelli, quelli in grado di aiutare nei campi. “Datemi un pochino d’olio!” a volte osava chiedere qualche ragazzo ma la risposta era sempre la stessa “L’olio fa veni’ i grolli!”. Un po’ perché non era lecito rispondere ad un adulto, un po’ perché i mocci al naso ce li avevano i più piccoli, nessuno insisteva nella richiesta.

I più piccoli, i cittini, erano gli ultimi. Gino se non trovava qualcuno che gli allungava qualcosa, spesso e mal volentieri, faceva il digiuno. Mangiare a sufficienza, anche a scapito degli altri, era il fine di tutti. Chi andava al mercato riusciva a far la cresta sulla spesa e a riportare un paio di acciughe che venivano nascoste in camera nel canterano. Ma il puzzo e il continuo andirivieni tradivano la furberia. E allora erano liti furibonde.

Eravamo negli anni 50, nelle città giravano le automobili e ci si riprendeva dalla guerra. In campagna ancora si andava a dormire nel soppalco con le foglie di tabacco appese sopra il letto.

I Ginetti erano contadini che venivano dalla Misericordia, vicino Castiglion Fiorentino, e come tutti i mezzadri lavoravano per il boccon di pane. Il resto era del padrone. Ogni anno il capoccia si recava in bicicletta ad Arezzo a fare i conti con il Papini, il padrone. Ma i conti non tornavano mai e si chiudevano sempre a debito per i contadini e il debito lievitava di anno in anno come la pasta del pane chiusa nella madia.

L’unica era arrangiarsi un po’, vendere le uova per esempio. Oppure sottrarre un maialino appena nato.

Una volta una scrofa partorì 10 maialini e a Fernando non sembrava giusto ingrassarli tutti per quello strozzino del Papini. Appena svezzato ne nascose uno. Ma andò male. Il Papini fece il conto della miscela che prendevano per i maiali e si insospettì. Controllò a tappeto la proprietà e scoprì il maialino nascosto in un piccolo stabbio ai confini del campo. Rischiarono di essere cacciati dal podere, li salvò il fatto che erano vicini alla mietitura e difficilmente il padrone avrebbe trovato da sostituirli.

Con le uova andava meglio ed erano buona merce di scambio. Quando i ragazzi andavano a scuola potevano ogni tanto barattare una coppia d’uova con un panino con la mortadella, oppure con una manciata di spiccioli per comprare la carta e l’inchiostro. Ma che vergogna se suonavano quando la bottegaia li scuoteva vicino all’orecchio! I cittini diventavano rossi fino alle orecchie. I grandi erano più smaliziati. Quando si cominciarono a vedere i biliardini a turno rinunciavano alla colazione e gli spiccioli dell’uovo venivano utilizzati per giocare al calcio balilla.

Un’altra furberia era di fingersi malati. L’uovo sbattuto era la cura di ogni indisposizione , ma spesso la malattia si chiamava fame.

Gino cresceva, ma era sempre il più piccolo, oggetto di angherie e dispetti. In casa c’era una sola bicicletta e a lui non toccava mai. Gino smaniava per poterla provare, se la sognava la notte. Lui con il berrettino con la visiera come Bartali che tagliava un traguardo immaginario in fondo alla discesa di casa sua.

Venne una grande nevicata e nessuno pensò di prendere la bicicletta con quel freddo e le scarpe sfonde. Erano rimasti tutti in casa intorno al focolare, nemmeno gli uomini erano andati nei campi. Era il suo momento, ora o mai più si disse Gino. Si coprì meglio che potè e corse incontro alla sua avventura. Partì a rotta di collo per la stradina che portava al paese, incurante del freddo che gli sferzava le orecchie a sventola e gli intirizziva i diti. Nella neve si andava che era una bellezza ma non era nemmeno a metà della discesa che la corsa si interruppe rovinosamente. Il telaio della bici si era spaccato, inesorabilmente e definitivamente spezzato.

Con i due monconi di ferro , uno per braccio Gino si incamminò a capo basso verso casa, consapevole del danno causato. Temeva una dura punizione invece il padre attaccò la bicicletta rotta in cima alle scale. Ogni volta che Gino entrava in casa si trovava davanti il triste trofeo della sua pedalata. Fernando non gli rivolse la parola per 6 mesi, il tempo necessario ad acquistare un'altra bici di seconda mano.

Appena in grado di andare in giro da solo Gino fu mandato a badare i maiali. Li seguiva con un giunco in mano e finalmente poteva sfogarsi delle prepotenze subite dai cugini sulle chiappe rosa dei maiali. Doveva stare attento che non entrassero nei campi coltivati, altrimenti avrebbero razziato tutto, poi al tramonto riportarli a casa. Uno degli uomini li avrebbe rimessi negli stanzini puzzolenti e lui era libero. In genere i maiali stavano in gruppo, bastava non perdere di vista la lezza massa ondeggiante e il più era fatto. Un pomeriggio invece un maiale si allontanò e Gino se ne accorse ormai arrivato a casa. “Disgraziato!!! Mangiapaneatradimento! Hai perso un maiale!!!ora il tu’ babbo t’ammazza! Sei un bono a niente!” Lo zio s’accorse a colpo d’occhio che mancava un maiale e, toltogli di mano il giunco, cominciò a corrergli dietro sferzandolo sulle gambe. Fino a quando il maiale non fu ritrovato fu costretto a girare per i campi alla ricerca del fuggitivo. E la ricerca durò parecchie ore a suon di frustrate sulle gambe. La domenica quando tutti i ragazzi vennero lavati nella stalla, Gino non voleva spogliarsi davanti agli altri. Le gambe erano a strisce, cangianti dal rosa intenso al viola. Il bagno veniva fatto nella stalla che era il posto più caldo della casa. Una grande tinozza veniva riempita di acqua calda e a turno si immergevano i ragazzi, in ordine di nascita, per poi asciugarli sfregandoli energicamente con un lenzuolo di tela grezza, tessuto in casa. Quando toccava a Gino l’acqua ormai era fredda e sporca e, se erano in vena di dispetti, c’erano anche un paio di pisciate.

Una volta lavati tutti per non sprecare l’acqua tiepida, se non era troppo nera, si metteva in ammollo il bucato.

Difficilmente i ragazzi di campagna andavano a scuola finite le elementari. In casa Ginetti ci aveva provato solo Tullio osteggiato da tutti. Quando si stancò di essere chiamato bighellone per il tempo che passava sopra i libri anziché sui campi, si arruolò in marina. Partì che aveva 15 anni e i pantaloni corti. Tornò con la barba, la divisa ed il diploma in tasca.

Quando il padre ritenne che la preparazione scolastica di Gino fosse sufficiente lo mandò a lavorare in un macello al paese.

La paga consisteva in una cartata di carne la domenica, carne che spesso era polmone e frattaglie ma tanto faceva sangue lo stesso.

Il padrone di Gino non era di quelli che si chiamano onesti. Se capitava non si faceva scrupolo di acquistare a prezzi stracciati bestie morte per poi macellarle e rivenderle in città.

La voce probabilmente si era sparsa e fecero dei controlli. Gli ispettori dell’ufficio igiene vennero al macello e li trovarono proprio mentre macellavano un “santantonio”. Il padrone smaliziato gli aveva spezzato i denti, per poi dire che la bestia era caduta e morta accidentalmente. L’ispettore ironizzò” Ma vi capitano spesso bestie che si rompono l’osso del collo?”

“Ma no!! Per fortuna moiono di rado in questa maniera!!” rispose pronto il macellaio. Al che l’ingenuo Gino esclamò “ E tutte quelle teste seppellite nel retro?”.

Gli ispettori disseppellirono una quantità di teste di santantoni . Sospesero la licenza al macellaio infliggendogli una multa salatissima e decretarono la fine della carriera di Gino come apprendista macellaio.

Fernando, il babbo di Gino, era un uomo tranquillo, vizi non si potevano avere, non c’erano i soldi per mantenerseli. La domenica si concedeva una variazione alla sua giornata di lavoro. Dopo pranzo inforcava la bicicletta e andava un paio d’ore a Cesa a giocare a carte con gli amici. Un caffè, un vinsanto erano la posta in gioco. Tornava verso le 5 in tempo per governare gli animali.

Il Papini informato mandò a chiamare Fernando che dovette andare ad Arezzo anche se non era il tempo dei conti.

Dopo 20 chilometri di pedalate non gli fu offerto nemmeno un bicchier d’acqua. Il Papini lo ricevette nello studio, protetto da un enorme scrivania di noce massello e alle spalle un altrettanto enorme crocefisso che penzolava dal muro.

“Ho saputo che trovi il tempo per andare al bar” esordì subito il padrone, “i mi’ contadini non hanno tempo da perdere e se ce l’hanno non sono òmini che fanno per me”.

Mentre Fernando tornava a casa giurò a se stesso che sarebbe stata l’ultima volta che andava a Arezzo dal Papini.

Nel 68 grazie alla pensione dello zio Santi, ai ragazzi che avevano cominciato a lavorare in fabbrica, alla famiglia che si era assottigliata , Fernando riempiendosi di debiti comprò una casa a Cesa. Anche lui trovò lavoro in fabbrica insieme ai figli. Invece il Papini non trovò nessuno disposto ad andare a mezzadria nel suo podere.

Vendette per qualche milione il podere a dei tedeschi convinto di fare un affare.

Oggi c’è un agriturismo con la piscina e il campo da tennis.

Solitudine

La signora era rimasta in disparte mentre l’uomo aveva acquistato i biglietti d’ingresso per il museo civico.

Era un piccolo museo, non c’erano opere così importanti da giustificare la gita di qualche scolaresca, tantomeno la ressa dei turisti.

Entrarono insieme nella prima saletta deserta, senza sfiorarsi, senza rivolgersi parola.

Lui era piuttosto alto e vestito in maniera sportiva, tradiva la sua età per via dei capelli completamente bianchi. I pantaloni di taglio giovanile, i capelli schiariti dalle meches bionde facevano apparire la donna molto più giovane, ma erano coetanei.

Si fermarono, sfiorandosi quasi inavvertitamente le spalle, davanti ad un quadro e solo dopo essersi accertati che nella sala non c’era nessuno, si guardarono.

- Finalmente ti rivedo! – sorrise l’uomo prendendole le mani – ma perché hai voluto che ci incontrassimo qui?

- Ho cercato di spiegartelo al telefono, la città è piccola, conosco tanta gente. Ho pensato che fosse improbabile che incontrassi gente conosciuta al museo. Sicuramente è meno compromettente.

La donna era imbarazzata e non riusciva a tenere fermo lo sguardo in quello del suo compagno. Non era una ragazzina ma era emozionata come se lo fosse. Del resto era il suo primo appuntamento, il suo primo appuntamento clandestino. E quella storia così surreale.

Mesi prima aveva ricevuto una telefonata, un vecchio compagno di scuola che grazie ad un diario e ad un numero di telefono vecchio di 30 anni, era riuscito a ritrovarla. Era cominciata così, con la curiosità di risentire un vecchio amico. Una telefonata a cui erano seguite altre, fino a diventare un appuntamento quotidiano. Fino a farle battere il cuore quando era ormai convita che il suo cuore non volesse più nessuna emozione.

- Come è andato il viaggio? Hai avuto problemi in casa?

- No no tutto tranquillo. Sono preoccupato per te, se ci fossimo incontrati in un’altra città sarebbe stato meno rischioso per te.

- Non sono mai andata da nessuna parte da sola, non posso cominciare a farlo a 50 anni. Vedrai andrà tutto bene, poi Sandro cosa facciamo di male?

- Che bello questo quadro. Anche te portavi i capelli lunghi. Ma non eri così triste. Eri una farfallina svolazzante. Ed io ero così timido che non ho mai avuto il coraggio di dirti quanto mi piacevi.

Le mani che finora si erano solo sfiorate, ora erano allacciate con la forza di quella dichiarazione tardiva.

- eri proprio uno stupido! L’unico ragazzo che mi interessava nemmeno mi guardava. Allora si che civettavo con gli altri. Poi ti sei trasferito e ….. Sandro?sei sempre convinto?

Sandro si voltò per abbracciarla e lei finalmente riuscì ad alzare lo sguardo e continuò – non assomiglio più alla ragazza del quadro.

- Hai ragione, non gli somigli, poi quella è una ragazza e te sei una donna. Sandro si avvicinò al cartellino per leggere il titolo dell’opera. “ solitudine” . Poi te non sei più sola.

QUEL MALEDUCATO DEL SIGNOR ROSSI

QUEL MALEDUCATO DEL SIGNOR ROSSI

“Via dei ciclamini 419, non dovrebbe essere troppo lontana. Speriamo di riuscire a trovarla, ho in tasca la piantina della città, male che vada guardo quella”

Il signor Rossi camminava con passo spedito, fermandosi agli incroci per controllare il nome della via. Stava pensando all’incontro fatto poco prima con il signor Ferri, il suo vicino di casa. Ferri lo aveva salutato cordialmente come sempre e lui non aveva risposto al saluto. Doveva risolvere questa questione quanto prima.

Il signor Rossi era un signore di mezza età, piccolo e robusto. Era avvolto in un pesante cappotto tenuto chiuso sul collo da una sciarpa, il cappello calcato sulle orecchie. La corporatura robusta e l’abbigliamento veramente troppo pesante per quella mattina di metà aprile lo rendeva goffo e ridicolo e non pochi passanti si voltavano a guardare quell’ometto che boccheggiava come un pesce.

Si avvicinò ad un vigile, come a voler chiedere qualcosa, ma poi sembrò ripensarci e scappando proseguì per la sua strada. Il sole stava scaldando l’aria e Rossi un po’ per l’abbigliamento un po’ per il passo spedito stava cominciando a sudare. Rivoletti di sudore scendevano dalla fronte e , senza fermarsi, se li asciugava con un fazzolettone a quadri.

Non riusciva ad orientarsi, non era mai stato in quella parte della città. Negli anni in cui lavorava percorreva a piedi il tragitto casa ufficio. Erano solo due isolati e se li faceva sempre a piedi, sotto la pioggia o sotto il sole. Non gli andava di stiparsi in un tram pieno di gente, ad inalare gli odori corporei degli occasionali compagni di viaggio, né tanto meno essere contaminato dai microbi che si moltiplicavano in quel mezzo chiuso e puzzolente. Lui ci teneva alla propria salute, non toglieva mai la maglia di lana, estate e inverno lo accompagnava come una seconda pelle. Nonostante tutte le sue buone abitudini era preoccupato per la sua salute.

Finalmente ecco via dei ciclamini, affrettò il passo calcolando mentalmente dove era il numero 419.

Lesse la targa in ottone e con un sospiro di sollievo entrò nell’edificio. Salì le scale stanco della camminata ma senza osare toccare lo corrimano delle scale. Entrò nello studio, si tolse finalmente il cappello e si accasciò sfinito in una sedia. Trascorsero una decina di minuti prima che il dottore si affacciasse nella sala d’aspetto. “Il signor Rossi?” chiese e quando questo annuì lo invitò ad accomodarsi. “Mi dica” chiese il medico con voce professionale. Il signor Rossi tolse di tasca un taccuino e scrisse – Ho perso la voce. -

Ultimo

Ogni mattina si chiedeva se finiva il suo turno di lavoro o se lo cominciava. Ancora non aveva ben chiari i ritmi della sua vita, era notturna o diurna?

Gli avevano spiegato che il suo non era un compito di vitale importanza anche se, dalla sua presenza, dipendeva la sicurezza personale del capo.

Durante il turno di notte non vedeva molta gente, nonostante questo le ore passavano in maniera piuttosto agitata. In certi momenti di calma giaceva tranquillo poi di colpo il capo lo schiacciava con la sua invadente presenza. Stava di nuovo per rilassarsi e su di colpo sobbalzava, scosso come da un uragano per venir di nuovo stropicciato dal capo. Dopo una di queste notti si alzava nervoso e dritto come un soldato sull’attenti. Non bastavano una doccia, un massaggio più o meno energico, ormai la sua giornata era rovinata. Apparentemente se ne stava tranquillo, quasi sopito, ma un alito del boss era sufficiente per tornare inviperito. E pensare che il capo un tempo ci teneva a lui e ai suoi colleghi. Erano rimasti veramente in pochi ed ultimamente si era rassegnato a fare a meno della loro presenza. Anni prima aveva speso una fortuna per cercare di fidelizzarli, ma uno per volta se ne erano andati quasi tutti. Ultimo invece era tosto, forse era quello spirito ribelle che lo teneva ancora lì. Sempre con quell’aria di sfida, ma abbarbicato al capo come la gramigna. Ma cominciava a perdere colpi, era depresso, nuovi arrivi non c’erano e quelli che se ne andavano non venivano più rimpianti.

All’inizio quando uno lasciava l’incarico, veniva salutato con rispetto, rimpianto per giorni e giorni. Ci si chiedeva il motivo, si erano consultati esperti per capire il perché di un abbandono in massa. Invece ora c’era la rassegnazione e non c’era peggior stimolo di un capo rassegnato.

Presto se ne sarebbe andato anche Ultimo. Un colpo di pettine un po’ più forte ed anche il più vecchio, il più tosto dei capelli sarebbe sceso giù per il lavandino

UN FREDDO ADDIO

Durante la mia vita ne ho viste di cotte e di crude, ma non per questo mi sono abituato all’indifferenza e alla maleducazione. Porte sbattute in faccia sono state all’ordine del giorno, fin quando ero bambino. Anzi la prima porta sbattuta me la sono presa che ero ancora in fasce e quello non è stato che l’inizio di una serie di prepotenze e maltrattamenti. E se qualche volta, dopo un litigio, l’aria si surriscaldava ho ricevuto anche qualche pedata, per non parlare dei graffi. No, non è stata una vita facile la mia. Qualcuno mi suggeriva la diplomazia, mi spiegava che non serviva a niente prenderla di punta. Ma io sono fatto così, dovrei essere freddo, razionale invece mi faccio trasportare dall’ardore, dall’energia che scorre nelle mie vene. A volte ho provato ad essere scostante, staccato, ma dopo un po’ mi sciolgo dalla tristezza. Gli altri invece di comprendere la mia ansia, di mostrarmi il loro affetto, la loro comprensione, mi attaccano peggio di prima. Poi le chiacchiere che hanno fatto sul mio conto. Anche la diffamazione ho dovuto subire! Sono un po’ imbarazzato a raccontare questo fatto. Ma ormai sto per andarmene e voglio sfogarmi. Dicevano che puzzavo. Si, avete capito bene PUZZARE. Non hanno mai capito che non ero io a puzzare ma tutte quelle schifezze che mi davano. Arrivavano, una botta alla porta senza nemmeno salutare, lasciavano un pacchettino che poi immancabilmente dimenticavano per giorni e giorni. Poi magari venivano a riprenderselo e se non lo trovavano preciso come lo avevano lasciato erano offese e accuse nei miei confronti. Non li ho mai capiti, davvero. Ultimamente sono caduto anche in depressione, non faccio che piangere. Litri di lacrime che si accumulano in fondo a quel cassetto che è il mio cuore. Quel cuore trasparente e immacolato che pensavo dovesse riempirsi solo di cose fresche, invece ha ricevuto solo marciume.

Ho sempre cercato di dare il meglio di me, a volte ho soddisfatto le aspettative, altre no . Ma vi giuro che ce l’ho messa tutta e quando le cose non hanno funzionato non è stata sempre colpa mia. Come quella volta che la signora ha voluto cambiare posizione. Io lo sapevo che l’avrei delusa, ma lei ha voluto che mi mettessi lì, appoggiato al termosifone. In quelle condizioni, che prestazione puoi pretendere da un frigorifero di 15 anni?

Il mulo

Per coprire con un velo di mistero la sua origine incerta, raccontava di essere stato accompagnato all’orfanotrofio con una lussuosa carrozza da una elegante signora. Sicuramente lui era il figlio illegittimo di una nobile e di un servo e quindi nelle sue vene per metà scorreva sangue blu.

Di sicuro naturalmente non c’era niente, era uno dei tanti “bastardi” abbandonato a fine secolo alla generosità di qualche istituto.

Fu anche fortunato, appena grandicello trovò una famiglia che si occupò di lui, ma non fu abbastanza degno da prenderne il nome e quindi si portò dietro quello dato nell’istituto, che ricordava l’ora del giorno in cui era stato trovato fuori dalla porta. Ma del suo cognome se ne servì poco, per tutti lui era “Il mulo”. Aveva un forza non comune grazie alla quale si ritrovò un mestiere assicurato: il barrocciaio. Con il suo carro trasportava tutto quello che poteva essere trasportato, non aveva problemi di peso, come lui non c’era nessuno e, quando non ce la faceva, al nostrano Braccio di Ferro, un bel gotto di vino restituiva la forza.

In fin dei conti non era messo peggio di tanti altri,in un epoca dove si era ricchi o poveri aveva un lavoro che gli consentiva di campare, un tetto, una salute di ferro ed era sicuramente un bell’uomo. Alto sopra la media, il fisico asciutto, un volto dai lineamenti decisi e fieri ma addolciti da un paio di occhi azzurri come acquemarine.

Non sapeva chi erano i suoi genitori, ma questo non aveva molta importanza, con la storia della contessa e della carrozza aveva creato intorno a se un alone di mistero che, tra gente così semplice , aveva aumentato il suo fascino. Non ci vide niente di strano a mettere gli occhi sulla ragazza più carina del paese, povera era povera più di lui, quindi tante pretese non poteva averle. Ed infatti non le ebbe. Intimorita dalla prepotenza e dalla caparbia del Mulo o ammaliata dal suo fisico, Argenta lasciò il banale fidanzato e accompagnò all’altare Guglielmo.

Gli anni trascorsi in istituto gli avevano insegnato la legge del più forte, e , su queste norme, aveva forgiato il suo carattere. Aiutato da un fisico possente, impulsivo e prepotente di carattere, erano in molti a temerlo. Nessuno, però immaginava i pensieri e le inquietudini che turbavano il giovane. Il rifiuto materno aveva intaccato senza rimedio l’autostima prima del ragazzo, cresciuto tra le prepotenze dei coetanei e dei precettori dell’orfanotrofio, poi dell’uomo, vissuto in un ambiente dove l’ignoranza faceva da padrona. Da qui nasceva il suo bisogno di farsi accettare e perché no, di emergere tra la massa di poveracci, quasi una sorta di rivincita alla sua origine sconosciuta. Il mezzo per raggiungere la sua meta non importava, poteva essere l’arroganza come poteva essere fare il buffone all’osteria.

Per un misterioso motivo non fu chiamato alle armi durante la I guerra . Questi anni trascorsi a casa gli portarono sei figli e, in un periodo di carenza di uomini vicino casa, non gli mancarono altri letti da scaldare e donne da consolare.

Argenta sopportava pazientemente, in fondo in casa non mancava cibo sulla tavola e se non fosse stato per gli scatti d’ira del marito, non sarebbe stata troppo male.

I bambini crescevano bene e non ne persero nemmeno uno, in anni dove la selezione naturale era d’aiuto alla miseria. Riuscirono perfino ad andare tutti a scuola, perfino l’unica figlia femmina. Guglielmo nonostante l’amore crescente per il vino si occupava coscienziosamente del sostegno economico della famiglia, ma le sue prepotenze e scatti di rabbia erano sempre meno tollerati dai figli man mano che crescevano.

L’unica difesa di Argenta era abbassare il capo e rifugiarsi nel ricordo del vecchio, docile, fidanzato che non aveva avuto il coraggio di competere con il Mulo, lasciandola sola nella scelta del suo futuro.

Guglielmo sapeva la moglie e i figli lontani. Questa famiglia che tanto aveva sognato, non riempiva il vuoto degli anni di solitudine, anzi era motivo di un nuovo rifiuto. Il bambino abbandonato dalla madre era diventato l’uomo subito dalla moglie e rifiutato dai figli. Non si rendeva conto che era lui stesso che, con il suo comportamento, aveva istaurato questo meccanismo di rifiuto nei famigliari, a cui sarebbe bastato così poco per amarlo.La mancanza di comunicazione, il pudore di una generazione che non sapeva dichiarare il proprio amore li divise per sempre. L’alcool accentuava maggiormente il suo spigoloso carattere e la voglia di fare spacconate. E per questo trovava sempre gente che lo incoraggiava nella sua insana passione. L’ignoranza era di casa e c’era chi, senza tanti pensieri per la testa e qualche soldo in tasca, trovava il proprio divertimento nel provocare ed assistere alle leggendarie sbornie del Mulo. Nel paese tutti sapevano che beveva direttamente da una damigiana da 50 litri , sollevandola da terra per portarla alla bocca e qualche d’uno era disposto a pagarne il contenuto pur di vedere l’impresa.

Erano diventate memorabile le spacconate frutto dell’ebbrezza. Una volta, preso dalla rabbia con la sua somarella che si era bloccata in mezzo alla strada, la sollevò di peso e voleva gettare il povero animale scioperante nel pozzo. La somarella sopportava docilmente e lo stesso faceva Argenta, ma i figli man mano che crescevano se ne andavano di casa, garzoni di qualche padrone. Guglielmo fu sempre più solo, sempre più Mulo, sempre più spesso ubriaco.

Gli anni passarono e figli tornavano a casa raramente e, appena poterono, si fecero la loro famiglia, cercando di pensare il meno possibile allo scomodo padre.

Spirito libero, non aveva mai accettato ne padroni ne imposizioni, e per questo ,negli anni del fascismo, si schierò dall’altra parte. La sua fama di testa calda e un inspiegabile rifiuto per le armi non gli permise però di essere accettato nella lotta clandestina ma lo salvò anche dalle prepotenze dei vari fascistelli di paese che lo temevano.

La guerra finì, i figli tornarono alle loro famiglie, tutti tranne il più giovane, l’unico che ancora viveva in casa. Fu dato per disperso e questa perdita definitiva peggiorò ancora di più l’equilibrio dell’uomo.

L’alcool e la vita avevano minato inesorabilmente il fisico e la testa di Guglielmo che divenne sempre più aggressivo e non poteva più contare sulla sua grande forza che sempre lo aveva salvato dalle sue prepotenze.

Ormai riversava la sua rabbia su tutti. Quelli che prima si erano divertiti alle sue spalle, ora ne erano infastiditi e temevano anche azioni irrimediabili.

Come da fanciullo era stato scomodo per una madre che non aveva voluto o potuto crescerlo, ora era diventato scomodo ad una famiglia che lo aveva subito, ad un paese che lo aveva visto spavaldo e spaccone. Complici di non aver saputo leggere in uomo diverso, di non aver saputo colmare la sua atavica solitudine, furono complici nel volersi sbarazzare di lui. Fu chiuso in un manicomio.

E in manicomio morì molto vecchio, ignorato da tutti ma lasciando una singolare eredità genetica. Si dice che in ogni ramo della sua numerosa discendenza nasca un figlio ribelle, inesorabilmente destinato a “muleggiare”.

La parola muleggiare è stata inserita nel vocabolario domestico dei suoi pronipoti con un preciso significato: comportamento fuori dalla norma corrente, libero da condizionamenti sociali.

Ma era veramente così folle?

Birillino

IL PIAVE MORMORO’: NON PASSA LO STRANIERO!”

- “ZAN ZAN” ancora nonno, ancora una volta!

Il vecchio Olinto si schiarì due volte la gola e con la voce baritonale intonò di nuovo La Leggenda del Piave. Il nonno sapeva tantissime canzoni e stornelli, imparati in giro per le campagne a fare i suoi tanti mestieri. Ma il Piave era la preferita del piccolo Alessandro, poteva cantare anche lui lo ZAN ZAN finale e la sua voce bianca cercava di assumere l’austerità di quella del nonno. Non capiva però come mai al nonno ogni volta che la cantava si inumidivano gli occhi.

- Ora basta, vai a giocare che deve venire Pallino a farsi i capelli.

Intanto aveva preso il rasoio e la fetta cominciando ad affilare la lama.

Alessandro adoravo questo nonno più vecchio di quelli dei suoi compagni. Era un uomo minuto accompagnato sempre dal suo bastone, eredità di un urto con l’ automobile che lo aveva investito. Il bambino lo seguiva curioso nei suoi lavori, sapeva fare tante di quelle cose. Quello che incantava Alessandro era ammirare i lavori di incisione sul legno. I cacciatori gli portavano i fucili e Olinto cesellava minuziosamente sul calcio i nomi, la testa di una lepre , una piccola quaglia o la coda di un fagiano. Sapeva costruire le casse per i fucili, le botti per il vino, i bigonzi dove mettere l’uva durante la vendemmia. I lavori di falegnameria erano i suoi preferiti ma non gli unici.

A casa venivano continuamente persone a chiedere i mestieri di Olinto.

– Birillino me le arrotate le forbici che mi cuciono!

- Olinto avrei da stagnare una marmitta, ci potete pensare voi?

Dalle sue mani uscivano utensili e arnesi di legno ma anche di quel metallo burroso che è lo stagno. Una volta aveva fatto un coperchio enorme con la borchia di un’auto, facendogli anche il manico. Peccato che c’era rimasto scritto Fiat 850.

Non era stata facile la vita di questo uomo, aveva solo un anno di più dei “ragazzi del 99” e partì appena diciassettenne per il fronte austriaco. Tornò invalido, la maschera antigas gli era crepata sul viso, intossicandolo e rovinando per sempre i suoi polmoni. Olinto che era stato abile per il Re non lo era più per la terra e solo perché aveva una piccola pensione fu tollerato dalla sua famiglia, povera gente che faticava a campare nel podere a mezzadria. E le sue 6 medaglie al valore non servivano ad apparecchiare la tavola. Fu per questo che Olinto si ingegnò ad imparare tanti piccoli lavori che gli permisero di non essere di peso. Non lo fu per molti anni ma quando ormai di mezza età volle prendere moglie fu costretto a cercarsi casa. Non si disperò, trovò un paio di stanze per se e per Armida e ci lavorò giorno dopo giorno, finché non le rese decenti. Inaspettatamente, vista l’età ormai non giovanissima, ebbero una figlia. “La mia Tortora” la chiamava Olinto e, come il pennuto , che torna sempre al nido, la Tortora restò sempre con i genitori, che portò con se dopo il matrimonio.

“Vieni a letto Alessandro che ti racconto una storia”. Ormai era grandicello, non cantava più Zan Zan nel finale del Piave, ma le storie del nonno lo affascinavano sempre, quindi si preparò con piacere a sentirne una nuova.

“Avevo diciassette anni quando mi chiamarono alla guerra. Non ero mai uscito dal mio paese e mi ritrovai tra montagne mai viste, tra gente sconosciuta che parlava in modo strano. C’erano ragazzi come me di tutte le parti d’Italia e tutti avevamo tanta paura e tanta fame. Qualche galletta, le fasce di lana per i piedi, un pastrano e il moschetto erano la nostra dotazione. Marciavamo per giorni e giorni, quando il nemico era vicino ci si nascondeva nel fango delle trincee e si montava un pugnale sulla canna del fucile. Mi sa che è in quel fango che ho preso la pleurite. Stavamo chiotti fino a quando il comandante gridava “All’assalto!!!!!” allora correvamo verso il nemico, se c’erano munizioni sparando, altrimenti con la speranza di infilzarlo prima di essere infilzati. Una volta ho creduto per davvero di morire. Partii all’assalto ma dopo pochi metri inciampavo nei corpi dei commilitoni che mi precedevano. Era un macello, non avevo coraggio di andare incontro alla morte. Gli austriaci sparavano di brutto e sentivo le pallottole fischiarmi intorno. Mi buttai a terra e mi nascosi sotto il corpo dei miei compagni morti. Sentivo il sangue caldo colarmi addosso ma non mi mossi , stetti fermo anche quando i corpi sopra di me diventarono di marmo. Anche io ero diventato di marmo, rimasi li sotto per tre giorni e tre notti prima di riuscire a rialzarmi.”

“Nonno, ma hai mai ucciso nessuno?”

“Zitto ora e dormi che è tardi e domani devi andare a scuola”

Forse era al fronte che aveva imparato la sua disciplina personale come aveva imparato a curarsi i reumatismi. Si fece arrivare dalla Francia delle “coppette” di vetro, incendiava un batuffolo di cotone e le coppette si attaccavano alla carne come sanguisughe succhiando l’umidità che la trincea aveva lascito nelle sue ossa. Olinto era molto metodico, rispettava scrupolosamente le prescrizioni dei vari medici che avevano cercato di riparare i danni sul quel corpo minuto. Tutti i pomeriggi faceva “il merendino” con una fetta di pane e mortadella perché glielo aveva consigliato il medico che lo aveva operato all’”urciola”. Chiudeva la giornata con un sorso di sciroppo consigliato dal “dottore delle spalle”, quello che gli aveva curato la pleurite. Ma la sua autodisciplina si vedeva con le sigarette. Il suo capitano di trincea gli aveva insegnato che con moderazione non facevano male, anzi disinfettavano l’apparato respiratorio. Allora si concedeva due Nazionali senza filtro. La mattina le prendeva dal pacchetto e le smezzava, così diventavano quattro. Conservava in tasca le cicche e la sera con una cartina ne ricavava una quinta, concessione per il dopo cena.

Probabilmente tutte queste regole sono servite, perché Birillino è arrivato a compiere 86 anni. Birillino era il sopranome di famiglia, ma chi lo conosceva lo apprezzava per la sua costanza e la sua saggezza.

Napoli caserma……. 1987

Il Piave mormorava al passaggio dei primi fanti il 24 maggio…..”

Centinaia di reclute cantano l’inno prima di prestare il giuramento alla patria. Il viso di Alessandro è bagnato di lacrime, ora sa perché nonno Olinto piangeva.

La felicità

L’ostetrica aveva detto che era questione di giorni, presto il bambino sarebbe nato. Lei sperava che fosse una bambina anche se era il primo figlio. Certo avrebbe deluso un po’ suo marito ma soprattutto suo padre che aveva dovuto accontentarsi solo di lei. Figlia unica e per giunta femmina ed ora sognava un nipotino da portare a pesca.
Accese la luce per vedere l’ora, erano le 5. Antonio faceva il turno di notte, fino alle 8 non sarebbe ritornato. Non era tranquilla a stare da sola di notte, ma il turno ad Antonio non l’avevano cambiato. Sua madre si era offerta di dormire con lei, ma era talmente noiosa che l’avrebbe riempita di ansia. Poi non voleva nessuno al momento del parto. Già sarebbe stata imbarazzante la presenza della levatrice, figuriamoci di sua madre. Si era messa d’accordo con la Gina. I due appartamenti avevano una porta comunicante, comunicante per modo di dire visto che non si apriva, ma era di legno e se i primi dolori fossero arrivati mentre era sola, avrebbe bussato alla porta.
Non riusciva a riaddormentarsi. Aveva avuto sempre il sonno leggero e delicato, qualsiasi piccola variazione di luce o di rumore la svegliavano e il riposo era finito. Si carezzò dolcemente il pancione cercando di rilassarsi. Non riusciva ad immaginarsi quel bambino, non era stata la sorella di nessuno e nemmeno la zia, non era abituata ad avere a che fare con i neonati. C’era una cosa che la preoccupava e che non aveva confessato a nessuno. Sarebbe riuscita ad essere dolce ed affettuosa con la sua creatura? Suo marito le rinfacciava spesso di esser fredda, di essere un generale come sua madre.
Si strinse le coperte addosso per scaldarsi, troppo pigra per prendere un’altra coperta. Ancora era presto, la strada era silenziosa e non si era sentito passare nemmeno una lambretta.
Sarà mora o bionda? Avrà i capelli grossi e neri come i suoi o biondi e ricci come quelli di Antonio? Se fosse stato un maschio sarebbe un problema mettergli quei vestitini. Non li aveva fatti vedere a nessuno, erano abitini da bambola, pieni di trine e gale. Li aveva cuciti nei tempi morti, tra un vestito da sposa e un tailleur. Tutti le dicevano che aveva le mani d’oro e un gusto fine. Cuciva gli abiti alle signore più in vista del paese, all’ultimo veglione proprio una sua cliente aveva vinto il premio “eleganza”.
Improvvisamente sentì un piacevole calore alle gambe per poi essere invasa immediatamente dal freddo. Si erano rotte le acque. Appena si fu ripresa dall’emozione, tirò fuori lentamente le gambe dal letto, muovendosi al rallentatore, timorosa come se si dovesse rompere qualcosa. Si avvicinò alla porta e cominciò a bussare ma dall’altra parte regnava il silenzio. I primi colpi timidi furono seguiti da pugni più decisi. “Gina, Gina!!” chiamava sempre più preoccupata. Ma la vecchia Gina non rispondeva. Giuliana aveva sospettato più volte che fosse sorda, ma la donna aveva sempre negato dicendo che era distratta. Era inutile farsi prendere dal panico, era giorno qualcuno sarebbe passato per la piazzetta, poi la levatrice le aveva detto che dai primi dolori al parto minimo passavano 5 ore. Decise di andare in bagno a lavarsi e cambiarsi la biancheria. Poi avrebbe riprovato alla porta.
Si lavò con l’acqua gelida e indossò la biancheria che aveva preparato per il gran giorno. Tornò alla porta e ricominciò a tonfare, accompagnandosi con la voce ma Gina non rispondeva. Giuliana indossò un giaccone sopra la camicia e si avvicinò alla finestra. Aprì la persiana cercando di ripararsi dal freddo sbirciò fuori. Era tutto bianco. Durante la notte aveva nevicato, ecco spiegato il silenzio che avvolgeva la piazza, in genere rumorosa fin dalle prime ore dell’alba.
Giuliana in piedi alla finestra sentì il primo dolore. Una fitta che dalle reni arrivava fino al profondo delle viscere. Trattenne il fiato aggrappandosi alla finestra. Ancora c’era tempo, non c’era da preoccuparsi. Cominciò la spola tra la finestra e la porta chiamando sempre più disperata la Gina.
Dalla piazza non passava un’anima viva e la Gina dormiva di brutto.
I dolori cominciavano ad essere regolari, non troppo frequenti ma sempre più forti. Si dette dell’incosciente per non aver permesso a sua madre di restare a dormire da lei. La sua mente ora era sgombra da vestitini, colore dei capelli e stupidate del genere. Sperava solo che andasse tutto bene. Non aveva mai visto nemmeno una gatta partorire, sapeva a malapena cosa doveva succedere.
Tornò alla finestra e nella piazza completamente bianca vide spuntare un uomo. “Ficocco” pensò “oddio come si chiama Ficocco?”Non riusciva a ricordare il nome dell’uomo, tutti lo chiamavano con il sopranome che l’uomo detestava. Un’altra fitta arrivò, appena il dolore si attenuò aprì la finestra “ Ficocco , Ficocco!!” “Ditemi sposa, avete bisogno di qualcosa?” chiese l’uomo gentilmente nonostante l’appellativo odiato. “ Ho le doglie chiamatemi la levatrice”.
L’uomo non rispose nemmeno e cominciò a correre malamente tra la neve fresca.
Giuliana si sdraiò sul letto, presto sarebbe arrivata la levatrice ed anche Antonio e tutto sarebbe tornato a posto. La tensione sciolse dei lacrimoni sul viso angosciato, si alzò di nuovo dal letto per andare a togliere il chiavistello dalla porta. Dopo poco arrivò la levatrice, con la borsa dei ferri del mestiere e un paio di scarpe asciutte in mano.
“Giuliana, ma proprio con questo tempo dovevi partorire?”
“Ho avuto tanta paura, pensavo non arrivasse nessuno ad aiutarmi” e si mise di nuovo a piangere.
“Dai non fare la lammiona, che fra poco sarà tutto finito, ogni quanto hai i dolori?”. Giuliana si accorse che non lo sapeva, non aveva guardato l’orologio ed ora che ci pensava era un pezzo che non sentiva quelle fitte lancinanti. La levatrice tirò fuori una sveglia dalla borsa e l’appoggiò sul comodino. “Ora segniamo l’ora e vediamo ogni quanto tempo ci sono”.
Erano le 7,30 fra poco sarebbe tornato suo marito, neve permettendo. Ogni tanto la levatrice chiedeva ”Ancora niente?”
E Giuliana imbarazzata scuoteva la testa. Non aveva più i dolori, da quando era arrivata la donna nemmeno un accenno alla minima contrazione.
Arrivò Antonio e Giuliana scoppiò di nuovo a piangere “ Stavo male, si sono rotte le acque , la neve la Gina non sentiva…” Non l’aveva mai vista così fragile, era a disagio fra tutte quelle lacrime, sua moglie era sempre così riservata, nella gioia e nel dolore non perdeva mai il controllo.
“vuoi che vada a chiamare tua madre?” “nooo, siamo anche troppi!” rispose Giuliana.
Ci volle tutta la mattina perché la natura interrotta dalla paura tornasse a fare il suo corso.
Il dolore sciolse tutto il riserbo di Giuliana che pianse, rise ed urlò come tutte le partorienti del mondo. Solo a tarda sera la levatrice ormai stremata come la mamma, le mise tra le braccia quella minuscola bambina grinzosa come una vecchia di cento anni. E come la neve tutti i dubbi di Giuliana sparirono con il primo sole. Era quel piccolo fagotto caldo e urlante la felicità.

Il viaggio della speranza

Da quando mia sorella Serena era stata mollata dal fidanzato, ci aveva fatto la testa. Una volta al mese andava in pellegrinaggio da una certa “mamma Lucia”. Si sorbiva 7 ore di autobus per vedere 30 secondi la profetica mamma. Il fidanzato non si era rivisto ed in compenso un mese fa mi avevano operato per un tumore. Mi assillò fino a quando non accettai di unirmi anche io al pellegrinaggio e all’alba di un freddissimo ottobre partii con un’altra cinquantina di disperati verso la Puglia, terra benedetta da “mamma Lucia”. Mentre salivamo nel pullman notai che nel bagagliaio caricavano casse piene di bottigliette di succo di frutta. Lo strano era che erano vuote.
Durante il viaggio era come avere Radio Maria costantemente sintonizzata, solo che il coro che recitava il Rosario era a dieci centimetri da me. Praticamente 54 persone, ad un certo punto, per inerzia, si unì anche l’autista.
Il luogo di fede si trovava nel mezzo della campagna foggiana, tra ulivi rievocativi di un ben altro orto di preghiera. Quando arrivammo c’erano già molti altri pullman e una folla di persone attendeva l’arrivo della santa. Il posto era piuttosto semplice, c’era una capanna molto rudimentale dove, mi fu spiegato, Lucia avrebbe ricevuto uno per uno i fedeli. Non c’era lastricato o asfalto e praticamente avevamo i piedi nel fango. La zona era recintata e intorno c’erano molti banchi di legno coperti da un canniccio, tipo quelli delle fiere paesane. Dal momento che erano vuoti non riuscivo a capirne la funzione. Forse rappresentavano i farisei scacciati dal tempio. Effettivamente avevo davanti un santuario molto umile e spoglio.
- Un Angelo!!! Un Angelo!!!- il grido mi riscosse dalla mie riflessioni. Tutte le teste si alzarono verso il cielo. Preghiere e ringraziamenti alla Mamma riempirono l’aria. Mi avvicinai all’orecchio di mia sorella - Ma cosa è successo?-
- Non l’hai visto? - la guardai affranto e scossi il capo.
- E’ passato un Angelo sotto forma di nuvola
- Ah! .
Dopo la Lavazza apparizione, alcuni apostoli fecero mettere i fedeli in fila indiana. La Mamma cominciava a ricevere. - Entriamo insieme? - chiesi speranzoso a mia sorella. Non mi andava di andare da solo, cosa gli avrei detto?. Mia sorella era pratica del cerimoniale, avrebbe saputo cavarsela. Quando fu il nostro turno ero piuttosto emozionato e il mio scetticismo era stato messo a tacere dalla gente disciplinatamente in coda che mi raccontava i miracoli ricevuti. Entrammo nella capanna e mi trovai di fronte una vecchia imbacuccata dalla testa ai piedi. Aveva dei guanti senza dita attraverso i quali ci strinse le mani nelle sua.
- Mamma siamo venuti a trovarti perché tu preghi per mio fratello -esordì disinvoltamente Serena. Gli occhi della vecchia si fissarono sui miei che abbassai umilmente.
- Cosa ti è successo figlio mio?
- Sono stato operato…un cancro - risposi con un fil di voce.
- Pregherò per te, figliolo, ora andate e ricordatevi della vostra Mamma.
- Andiamo a prendere l’Acqua ora - mi disse Serena appena usciti dalla capanna
- L’acqua? mica ho sete, magari un the caldo con ‘ sto freddo .
- L’Acqua Santa scemo! - mi apostrofò la mia devota sorellina. Nel frattempo i banchini vuoti si erano riempiti di bottigliette di succo di frutta piene di acqua che gli apostoli distribuivano per la modica cifra di 5.000 lire. E prendiamoci anche l’acqua.
Quando tutti i componenti del nostro gruppo furono ricevuti tornammo all’autobus. Il capogruppo caricò nel bagagliaio una stagna di acqua e un paio di casse di bottigliette questa volta piene. Dovevamo ancora mangiare, ci saremmo fermati lungo la strada. Durante il viaggio c’era un clima più disteso, si era rotto il ghiaccio e alcuni raccontavano la loro esperienza. Malattie incurabili debellate, mariti fedifraghi tornati all’ovile, figli irruenti finalmente domati… insomma c’era tutta la casistica delle miserie umane. Il capogruppo erano anni che veniva, ormai era entrato in confidenza. A lui , in via eccezionale, davano un' intera stagna di Acqua Santa.
Io ascoltavo in silenzio, appisolandomi ogni tanto. Mi svegliò l’imprecazione dell’autista. C’erano problemi al motore. Scesi con lui, faccio il meccanico e una mano gli sarebbe servita. Il motore fumava vistosamente. Controllai i livelli, era finita l’acqua del radiatore.
- E ora dove troviamo l’acqua ?- chiesi speranzoso all’autista. Ci guardammo complici in silenzio.
“- Tutto a posto tutto a posto, voi restate nel pulman!!! – ordinò l’autista agli altri che scuriosavano dai finestrini.
-Speriamo di arrivare a casa!- mi disse porgendomi la stagna che era nel bagagliaio.

IL CULO DELLE DONNE

Non mi definirei una persona invidiosa, mai schizzato gli occhi per un bel vestito, un auto o per i soldi in tasca. Ma quel culo l’ho sempre invidiato, anzi diciamo che è stato il primo motivo cosciente di invidia. La vedevo passare davanti strizzata nei jeans. Guardavo il suo culo e mi veniva in mente la farina disposta a fontana, pronta per fare un bel dolce. Alta, soffice ma consistente. Pensavo al mio e mi veniva in mente la spianatoia. Sarò per questa invidia che ho cercato di superarla in tutto quello che facevamo? A scuola ero più brava, dopo facevamo i concorsi insieme ed io mi piazzavo sempre meglio di lei, al punto che poi ho saputo che lei mi nascondeva i bandi e faceva le selezioni di nascosto da me. Appena l’ho scoperto mi ci sono messa d’impegno e le ho soffiato il posto da …sotto il culo.

Ad un certo punto il dolce ha cominciato a lievitare, il bell’impasto soffice ha cominciato a ingrandirsi, a gonfiare qua e là di bei bozzi di cellulite. Ed io gongolavo , avevo sempre una spianatoia, ma le dimensioni più o meno erano rimaste le solite. Gli anni, i figli, i chili di troppo, hanno fatto assomigliare sempre di più i nostri culi ed è finita la competizione. Anzi siamo diventate finalmente amiche. Eravamo insieme il giorno dell’incidente. Dicono che abbiamo avuto culo, siamo su una sedia a rotelle ma ancora vive. Ora abitiamo insieme, abbiamo una filippina che ci accudisce. Chissà cosa pensa dei nostri culi.

AIYANNAR

Mi guarda con un’espressione indecifrabile, gli occhi semichiusi e il naso arricciato. Non so se crede incutermi rispetto con una smorfia del genere, oppure se vuole essere beffardo o che altro. E’ vestito come John Travolta nel film La febbre del sabato sera, ma dubito che lui lo abbia mai visto : sicuramente non era ancora nato quando il film usciva nelle sale. Troppo giovane, troppo sicuro di sé per essere veramente sicuro, troppo manichino in quell’abito bianco e camicia azzurra dal colletto esageratamente lungo.

Piazza le mani dentro le tasche dei pantaloni, il bacino spostato in avanti e un piede che batte nervosamente a terra.

- Mi chiamano Tamillo – dice. – Non è un soprannome che mi hanno per un difetto di pronuncia che avevo da bambino: Camillo dicevo a due anni e Camillo dico ora a chi mi chiede il nome. Tamillo viene da Tamil, o qualcosa del genere, una roba sanguinaria delle parti dell’India, o giù di lì…

-

Una roba sanguinaria….. ma guarda che scemo che mi doveva capitare. Mi stavo chiedendo come era possibile che un antropologo come Severi potesse avere generato un figlio tanto idiota. Probabilmente era la classica dimostrazione di come l’ambiente conti più dei geni. Infatti il nostro Tamillo mentre i suo genitori perlustravano l’India, o meglio il Tamil Nadu, se l’era cresciuto la nonna materna. E con lei era rimasto perchè poi erano morti per una malattia infettiva contratta proprio in India.

Avevo fatto in modo di farmelo presentare e le cose stavano andando proprio come volevo. All’inizio ho temuto di essermi messa in un impresa impossibile, in fondo è giovane il ragazzo, poteva ignorare la quarantenne tutta carrozzata in vena di avventura.

- Andiamo da qualche parte? - Propongo invitante. Prima risolvo questa faccenda e meglio è.

- Conosco una discoteca qua vicino, fanno una musica che è uno sballo. Sai ballare il figurato?

Il figurato? Questo è proprio scemo. Ma dovevo trovarlo io l’unico ventenne che sa ballare il liscio? – Proprio il figurato no, ma con il liscio me la cavo. Dai andiamo, ci buttiamo nel tango…. . Intanto mi struscio maliziosa al mandrillo..pardon al Tamillo

Come sono spiritosa, certo ci vuole coraggio a farsi vedere in giro con un tipo così, ma se le cose vanno come dico io…..

Erano anni che stavo facendo delle ricerche sulle civiltà dravidiche e mi ero imbattuta in alcuni documenti del padre di Tamillo. Aveva fatto uno studio su Aiyannar, una delle poche divinità maschili di quella civiltà ed ero rimasta affascinata. Secondo l’antica tradizione, Aiyannar inglobava sia le funzioni di difesa tipiche degli dei maschi che quelle di fertilità delle dee femmine. Era la massima espressione di energia creativa, infatti si narrava che nascesse dalla naturale evoluzione dello sperma che i contadini deponevano ritualmente sul bordo delle pozze di acqua, per rendere fertile la terra.

Eravamo intanto arrivati al parcheggio della discoteca, mi sistemai le autoreggenti che si erano allentate sulle caviglie. Il ragazzo sgranò gli occhi e mi prese sottobraccio per niente imbarazzato che potevo sembrare sua madre. A onor del vero non sono tanto male, nessuno direbbe che sono una che passa la sua giornata a spulciare libri polverosi.

Il locale era piuttosto affollato, diverse coppie accaldate e sudaticce saltellavano un due tre nella pista. Il valzer per fortuna era nel mio repertorio, grazie mamma per avermelo insegnato.

Prendo la mano del mio giovane accompagnatore e ci buttiamo nelle danze. Lui mi alita in un orecchio , il bacino proteso in avanti, per farmi sentire che è eccitato.

Dopo due valzer, un tango e un passo double avevo il collo completamente sbavato e i piedi che mi martellavano nelle scarpe con il tacco a spillo.

Risposi un Siiiiii rauco e accondiscende quando Tamillo mi chiese se volevo andare in un posto

più tranquillo. Risalimmo in auto, chiesi dove stavamo andando. In cuor mio pregavo che abitasse da solo, se mi portava in albergo il piano andava a farsi friggere.

La mia preghiera fu ascoltata dal Dio Aiyannar e dopo un po’ parcheggiò in una strada di periferia. Senza staccarsi dalla mia vita mi fece strada per le scale. Aprì la porta e mi prese in braccio nel varcare la soglia. Mi depositò in un letto da scapolo senza togliermi le mani e gli occhi di dosso. I miei occhi invece perlustrarono la stanza e finalmente lo vidi. Sopra una cassapanca, appoggiato ad un centrino all’uncinetto eccolo lì il mio Dio. Circondato dalle sue due mogli, la spada sguainata, i baffoni, l’elefante e il leone a guardia. Aiyannar era uno dei simboli del culto del fallo dello shivaismo. Emisi un gridolino di piacere e strinsi l’altro fallo

molto meno simbolico. Siii sei mio!!! Tamillo fece tutto molto velocemente e si addormentò subito dopo l’ultimo gemito.

Mi alzai silenziosamente, presi la statuina. “grazie caro, è stato indimenticabile” scrissi in un bigliettino prima di andarmene.

Il Professore

Come ogni mattina, Otto guidava il professor Andreini verso la scuola. L’anziano insegnante lo seguiva fiducioso, rispondendo sorridente ai saluti che gli rivolgevano i negozianti del paese. Tutti lo conoscevano, per molti era stato il loro insegnante e spesso anche quello dei loro figli.

Il breve tragitto che lo separava dalla scuola, era scolpito nella sua mente. Erano passati molti anni da quando poteva vederlo, c’erano stati dei cambiamenti, ma aveva fatto il modo di farseli raccontare, ed ogni mattina, ad occhi chiusi “vedeva” la strada.

C’erano un paio di incroci da superare, ma lui si fidava di Otto. Traversava la strada e c’era il negozio del fotografo, l’unico ancora chiuso. Poi la pasticceria da dove veniva un odorino invitante di crema fresca e caffè. Lo spiffero di aria gli diceva che era sull’incrocio, l’unico punto del tragitto che non era racchiuso nella nicchia delle vecchie case del centro. “Anche stamani mattiniero, professore!” era il fruttivendolo che lo salutava, sbattendo le cassette di legno sui pianali di ferro.

Il caldo, fragrante mattutino aroma di pane gli diceva che era vicino al forno. Ora che c’era solo il colore dei ricordi, odori e rumori penetravano in lui indelebilmente come una macchia d’inchiostro su di un foglio. Riconosceva la voce di tutti i suoi ragazzi, anche a distanza di anni.

All’edicola gli facevano trovare pronti i quotidiani, e il professore aveva già gli spiccioli in tasca. Ora doveva svoltare a sinistra, intorno all’originale costruzione del “48”. Sembrava gettata a caso in mezzo alla strada, due vie si aprivano a ventaglio, con la piccola costruzione nel mezzo. Se la ricordava bene, era un edificio dei primi del secolo, lo aveva visto prima di diventare cieco.

Il vocio dei ragazzi, era arrivato a scuola. Sganciò il guinzaglio ad Otto, che, fedele soldato, fece dietrofront. Sarebbe tornato a prenderlo all’uscita. Arrivava tra i primi a scuola , i capelli bianchi e folti in piedi sulla testa, l’abbigliamento trasandato dove ogni tanto fiorivano innocenti e inopportune macchie. Non portava il bastone bianco e nemmeno gli occhiali scuri. Teneva le palpebre semichiuse, come un bambino l’attimo prima di addormentarsi.

Entrò in classe. Ci voleva sempre un po’ di tempo prima di riuscire a stabilire l’ordine.

Sapeva i classici a memoria, ma un giorno a settimana era dedicato alla lettura dei quotidiani.

Distribuì i giornali, uno diverso per ogni fila di banchi. Voleva che si confrontassero le notizie e che i ragazzi familiarizzassero con la loro lettura .

Fece iniziare Stefania, aveva una bella voce, chiara e decisa con le giuste intonazioni e al professore piaceva sentirla leggere.

Iniziavano con i titoli, per poi scegliere l’articolo da approfondire. Una pagina sul processo ai 50 brigatisti appena iniziato; Andreotti vara il IV governo monocolore, ci sarà l’appoggio dei comunisti? Una scorsa alla cronaca locale e Stefania improvvisamente tace. I suoi occhi e la sua voce si fermano su un piccolo trafiletto “Anziano professore denunciato da una madre per negligenza”. Afferra subito che quel professore è il suo professore, che quella madre è la madre di Petrelli, il suo compagno di classe.

Nell’aula cominciarono i mormorii incontrollati e l’udito sensibilissimo del professore captò cosa stava succedendo. Alcuni giorni prima era stato chiamato dal preside che con durezza aveva sbattuto una lettera sulla scrivania .

- Che diavolo succede nella sua classe? Le sembra possibile che un insegnante con la sua esperienza non riesca con un po’ di disciplina a controllare un paio di scalmanati!!!.-

Il professor Andreini con la calma che sempre lo accompagnava, rispose

- La mia esperienza mi insegna che è meglio preferire la carota alla frusta.

- La carota!!! altro che la carota!! le hanno mangiato la mano e tutta questa storia rischia di far mangiare anche la mia di mano e forse anche il braccio!!

Il preside finalmente spiegò che aveva ricevuto una lettera molto dura dalla madre del suo alunno di seconda Petrelli. La signora faceva delle precise accuse nei confronti dell’insegnante di lettere di suo figlio non solo di non rispettare il programma ministeriale, ma soprattutto lo accusavo di negligenza in fatto di vigilanza durante le lezioni. Non menzionava la sua menomazione ma affermava che in classe si copiava durante i compiti, le interrogazioni si facevano a libro aperto e l’insegnante non era capace di mantenere la disciplina.

- Professore, lei sa perfettamente chi è il signor Petrelli – continuò con fare paternalistico il preside che sembrava aver ritrovato la calma sedendosi dietro la scrivania. –Lei sa meglio di me, visto che vive qui, che è il presidente della Cassa Rurale. Saprà anche che ha promesso un generoso contributo alla mia scuola, alla nostra scuola!- La voce baritonale del preside si alzava in un sonoro crescendo. –Questo ci permetterebbe di diventare una scuola di avanguardia nella provincia. Ed io, i suoi colleghi, gli allievi, dovremmo rinunciare a questo per le sue picche con la signora Petrelli??

Non gli aveva fatto aprire bocca, per la verità il professore non aveva nemmeno avuto voglia di giustificarsi.

Batté la pipa sulla gamba della scrivania e, al rumore, si riscosse invitando Stefania a continuare la lettura.

***********************

Finalmente suonò la campanella della fine delle lezioni. L’insegnante trovò il cane alla porta che lo aspettava. L’animale strofinò il corpo alle gambe del suo padrone e insieme si avviarono verso casa.

Il professor Andreini si accorse delle freddezza intorno a lui. Un passo dietro l’altro, comprese che per tutta la mattina non si era parlato d’altro, tutti avevano detto la loro, si era ricamato su quel piccolo insignificante episodio, ingigantito solo dai nomi dei protagonisti e dal fatto che il giornale gli aveva dato spazio.

Il professore si chiuse la porta alle spalle e, nel consueto buio,si adagiò nella sua poltrona.

Chi poteva aver divulgato la notizia? Il preside o la signora Petrelli? Il primo non aveva nessun interesse a far sparlare della scuola, quindi restava la signora. Era anche tipico del suo modo di fare, non era la prima volta che si faceva paladina di una causa, andando avanti come un buldolzer travolgendo tutto quello che incontrava sulla strada. Ora era toccato a lui.

Domani avrebbe parlato con il preside, non sapeva nemmeno cosa c’era scritto di preciso sul giornale. Aveva percepito solo i mormorii dei ragazzi e il gelo della gente fuori della scuola.

Avrebbe potuto chiamare un vicino, un collega e farsi leggere l’articolo. Ora non si sentiva di parlare con nessuno, avrebbe affrontato tutto domani con il preside.

Si alzò ed accese il suo vecchio giradischi . Sapeva l’ordine preciso dei dischi, contò fino a trovare le 4 stagioni di Vivaldi. Mentre la musica cominciava a riempire la stanza, si rimise nell’ avvolgente poltrona, chiuse gli occhi e si fece prendere dagli arpeggi dei violini de La primavera. Domani, domani avrebbe pensato all’inverno.

******************

Un deciso – Avanti! seguì l’altrettanto deciso bussare alla porta. Il professore entrò nella stanza porgendo il giornale vecchio di un giorno al preside - Non mi sono fatto leggere di proposito l’articolo, so che c’è qualcosa che mi riguarda ma vorrei che fosse lei a dirmi cosa sta succedendo.-

- Io ho provato alcuni giorni fa, a farmi dire da lei professore cosa sta succedendo con la signora Petrelli. Non ho ottenuto nessuna risposta. Per il giornale, ha ragione. Anche io avrei preferito che la cosa rimanesse qui dentro, quindi non ne so niente. Si sono limitati a pubblicare la lettera che lei conosce. Visto che io non l’ho certamente divulgata, è la signora che l’ha fatto. D’altronde è lei che l’ha scritta, può farne l’uso che crede opportuno. Doveva pensarci prima con chi aveva a che fare e valutare le conseguenze.-

L’insegnante cercò l’appoggio della sedia che aveva di fronte : - Sono 38 anni che insegno e in tutti questi anni il mio obbiettivo non è stato solo quello di far amare la nostra lingua, di far comprendere i nostri poeti o far apprezzare i grandi scrittori. Io ho amato i miei allievi, ho cercato di comprenderli e prepararli alla vita di ogni giorno, in una parola di aiutarli a crescere. A volte sono stato di aiuto, a volte no. Ma ci ho provato sempre, anche se significava difenderli dalle loro stesse famiglie.

Il preside lo interrupe acidamente - Professore voglio sapere cosa è successo con la signora Petrelli! la sua missione non mi interessa !-

- Ho avuto una discussione con la signora durante l’ultimo colloquio. Andrea è un bravo ragazzo, intelligente e preparato, ma è soffocato da sua madre. Lo protegge da tutto e da tutti, ha delle aspettative molto forti nel ragazzo e questo lo rende insicuro. E’ timido e in classe lo prendono per un borioso e si divertono alle sue spalle. Io ho provato a parlarne con la madre. Le ho consigliato di essere meno esigente, ma anche di scrollare un po’ il ragazzo, di fargli prendere qualche responsabilità, magari uno psicologo poteva essere di aiuto. Lei mi è saltata addosso, dicendomi che alla testa di suo figlio ci pensava da se, che io mi fossi occupato del mio aggiornamento professionale che probabilmente lasciava a desiderare. Insomma ci siamo lasciati malamente, ma non mi aspettavo una vendetta del genere.

Il preside era visibilmente nervoso - La sua ingenuità mi sorprende, lei conosce la reputazione della signora, prendersi la briga di dare certi consigli e magari pensare di esser anche ringraziato! Ora dobbiamo trovare una soluzione, la signora è scesa sul sentiero di guerra e le sue armi sono più affilate delle sue, professore. Io non sarò al suo fianco, non lo nascondo. Non voglio perdere le possibilità che i soldi della banca daranno a questa scuola. Provi a pensare cosa significheranno per questo Istituto… attrezzature nuove, corsi aggiuntivi… . Questa scuola, una delle tante, potrebbe diventare la migliore della provincia e, secondo lei, io dovrei perdere questo treno?

Guardiamo un’altra probabile conseguenza del disastro che la sua presunzione ha combinato. Il padre di Andrea ha amicizie influenti e io dovrei far entrare la scuola nell’occhio del ciclone, rischiare di mettermi contro il Provveditore o chi altri? Professore, lei è in guerra ed è anche solo. Una resa dignitosa è l’unica strada percorribile, ci pensi.

Il prolungarsi di una pausa preannunciò il colpo finale:- Mancano pochi mesi alla fine della scuola, potrebbe darsi malato poi chiedere il pensionamento. Non ne uscirebbe troppo male, in fin dei conti anticiperebbe solo di poco un ritiro comunque inevitabile. Uno scontro diretto non gioverebbe a nessuno, nè a lei né alla scuola. Ora non dica niente, ci pensi e mi faccia sapere.

Torni in classe e si limiti a seguire il programma. Non voglio altri colpi di testa .-

************************

Con il cane al guinzaglio entrò nel vialetto, la ghiaia scricchiolò sotto i suoi passi. Un forte odore di erba lo aggredì, probabilmente era stato appena falciato il prato inglese che circondava la villetta.

Non c’era più ghiaia sotto i suoi piedi, salì alcuni scalini ma non trovò il campanello d’ingresso, Bussò alla porta. Lo sferragliare della doppia mandata fu seguito da un pesante silenzio – Sono il professor Andreini, la signora è in casa?-

- Buonasera professore- riuscì finalmente a mormorare il giovane sulla porta.

- Andrea con chi stai parlando?? – un tacchettio veloce e deciso sul parquet annunciò che la signora Petrelli era in casa. Un aroma agrumato si stava avvicinando. Quando calcolò che fosse abbastanza vicino, il professore tese la mano salutando- Buonasera signora, mi scusi se mi sono permesso di venire qui, ma vorrei parlarle.-

La mano restò sospesa nel vuoto un attimo di troppo prima di incontrare quella fredda e senza vita di Sandra Petrelli. – Prima di tutto fuori il cane e te Andrea, vai in camera tua. Non credo abbiamo molto da dirci professore, ma se ci tiene si accomodi pure. –

- Mamma, posso restare fuori con il cane?

- Legalo fuori e vai in camera tua – tagliò corto la donna, incamminandosi verso il salotto. Domenico restò inchiodato sulla porta con il cane al fianco. Andrea si avvicinò al suo insegnante

- Venga professore, ad Otto ci penso io.

- Aspetta qui Andrea – Domenico accompagnò le parole con una carezza al cane che subito si mise in posizione di riposo. Il ragazzo timidamente prese il suo insegnante sotto braccio e lo accompagnò in salotto biascicando un imbarazzato - Mi dispiace .

Non appena Andrea se ne fu andato, Sandra non perse tempo:

- Allora professore a cosa debbo la sua visita? Dopo che ha reso mio figlio lo zimbello della scuola, cosa altro vuole ancora?

- Signora mi dispiace che abbia frainteso le mie intenzioni. Andrea non è lo zimbello della scuola. E’ solo un ragazzo molto timido e probabilmente qualche compagno se ne è approfittato. Ma non è successo niente di grave, qualche presa in giro è nella storia di ognuno di noi.

- Andrea non voleva tornare a scuola!! Ha chiesto a suo padre di trovargli un lavoro!! Si immagina lei!!!

- Suo figlio è troppo sotto pressione, non ingigantisca un salutare sfogo. Lo aiuti a trovare l’autostima di cui ha bisogno.

- Quello che penso di lei e della sua psicologia spicciola ho già avuto modo di dirglielo. Signor Andreini – continuò Sandra calcando la voce sul signor – lei non è più all’altezza di insegnare in una scuola e forse non lo è mai stato. Come pensavo non abbiamo più niente da dirci, l’accompagno fuori.

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- Caro Otto ancora non abbiamo finito - esclamò il professore accucciandosi accanto al pastore tedesco sul vecchio tappeto del salotto, vittima di tante arrotature feroci di Otto– lo so, te non sai niente delle mie battaglie, non c’eri ancora a farmi compagnia.

Il cane appoggiò la testa sulla mano del professore e uggiolò malinconico.

- La mia prima prova è avvenuta tanti anni fa, allora non ero un vecchio cieco, ma un giovane forte con tante speranze e tanti sogni, e te , amico mio, non c’eri in quei sogni - Otto gli mordicchiò la mano con affetto

- Ho fatto la guerra….ho subito la guerra, come tanti della mia generazione. Ero un alpino e fui mandato in Russia. Lo sai te, amico mio, cosa vuol dire non sentirsi più gli arti? Le tue belle e forti zampe che se ne vanno per conto loro. Non ascoltano più il tuo cervello che dice: cammina! E la fame….. non avere niente che ti riempia lo stomaco. Allora ti prendeva una voglia pericolosa, uno strano languore che ti scaldava…pensavi: ora mi fermo, mi adagio sulla coperta e dormo. Davanti agli occhi compariva la tua casa, la tua famiglia che ti aspettava a tavola, il focolare accesso…le campane che suonano. Ma chi cedeva a questo miraggio non si alzava più, e quanti sono rimasti sotto la neve. -Il cane ascoltava tuffando ogni tanto il naso umido nella mano ossuta del suo padrone.

– Quando siamo partiti eravamo un vero esercito poi siamo diventati una colonna di formichine sciancate, avvolti nelle coperte per ripararci dal freddo, le scarpe tenute insieme dal fil di ferro e tanta di quella fame… Camminavamo alla ricerca di un’isba per scaldarci sperando di trovare qualcosa da mangiare e seminavamo nella neve tutto quello che era inutile. Prima l’artiglieria, poi le casse con le munizioni, le carcasse dei muli che ci avevano sfamato ed infine i nostri corpi. Anche le mie gambe dissero basta, non vollero andare oltre e mi lasciai avvolgere nella neve. Ma un commilitone in coda alla colonna mi vide, mi caricò su di un mulo e in Russia ci ho lasciato solo un paio di dita e i miei occhi… che dici, Otto, fu una vittoria o una sconfitta ?

Poi l’insegnamento…..- una risata amara affiorò sulle labbra di Domenico- credi che lo volessero un professore cieco a scuola? Quanti esposti, quanti esami per poter dimostrare che potevo insegnare, che potevo ancora guadagnare il mio stipendio … ed ora che facciamo?

Io ho agito in buona fede, quello che ho detto era solo per aiutare Andrea, non volevo offendere o ferire nessuno. Ma sono fatto vecchio e forse non sono più capace di valutare la portata di quello che dico. Ogni anno ci sono ragazzi nuovi nella mia terza, sempre della stessa età, forse questo mi ha illuso che per me il tempo non passava? E invece sono diventato un inutile moscone….

Potremo stabilirci al mare, io e te. Lo so che a te piace correre sulla spiaggia e fare il bagno – come sollecitato da queste parole il pastore si riscosse dal torpore e si alzò in piedi pronto a partire – qui faranno il cerchio intorno alla nostra signora… noi ci portiamo la nostra collezione e tanti saluti.-

Erano anni che Domenico obbligava amici e colleghi a registrare nastri con i libri che leggevano, e lui li conservava come si fa con un buon vino, riservandoli per gli anni futuri.

Per il professore era arrivato il momento di stappare quelle bottiglie.

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L’aveva visto la prima volta una mattina tornando da pesca. Stava mettendo in mare una piccola barca a remi, un cane lupo gli saltellava intorno. Possibile che fosse l’uomo che si era stabilito nella casina della pineta? Aveva sentito dire che era cieco, non poteva credere che si mettesse in mare da solo. La spiaggia era deserta, Gino non aveva nessuno che lo aspettasse e si mise seduto sulla sabbia umida senza staccare gli occhi dal cane e dal suo padrone. L’uomo, i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, era ormai in acqua, un’altra piccola spinta e salì sulla barca. Immediatamente anche il cane saltò nella sentina, accompagnato da una nuvola di spruzzi di acqua.

Gino li osservò allontanarsi dalla riva, l’abbaiare festoso del cane era l’unico rumore sulla spiaggia. Quando la sagoma del cane si distingueva ormai a malapena si fermarono, rimasero per un po’ in quella posizione per poi tornare verso la spiaggia. Avvicinandosi alla riva Domenico con un remo controllava la profondità dell’acqua, prima di scendere. Gino si avvicinò e goffamente chiese se serviva aiuto.

- Ad una mano in più non si dice mai di no – rispose con un sorriso Domenico alzando il capo.

Assicurata la barca a riva, Domenico porse la mano a Gino che la strinse con decisione. Domenico sentì una mano nodosa e ruvida, avvezza alla fatica e all’intemperie.

- Cosa fa così presto sulla spiaggia? – chiese Domenico.

- Vado a pesca, ho una piccola barca e appena fa giorno la metto in mare. Tanto non dormo.

A lei piace pescare? .- Si pentì subito della domanda.

- Veramente credo di non averlo mai fatto. Riesco a fare molte cose nonostante non ci veda, con l’aiuto del calore del sole e di Otto che è la mia bussola, vado perfino in barca. A pescare però devo ancora provarci.

- Se per lei non è un’alzataccia io domattina sono qui. Se vuole possiamo andare insieme, ho io l’attrezzatura. Porti anche il cane.

Il professore inalò l’aria salmastra, e sorrise al tiepido sole. Non era ancora inverno.

LA SIGNORA VIAGRA

Se trovi la persona che ha voglia di parlare, nel tempo di una dichiarazione dei redditi, ti racconta la sua vita.

Una mattina è capitata una signora sconosciuta al mio ufficio. I capelli biondi lunghi e ricci con la scriminatura nel mezzo e due fermaglietti ai lati, come una bimba o una signorina invecchiata di altri tempi. Forse era questo che le dava un età incerta. Un viso regolare, un bel naso allungato, labbra sottili e un seno prosperoso. Né bella né brutta.

Leggo i documenti che ha diligentemente compilato e svelo il mistero “Siamo coetanee! “ le dico sorridendo, mentre penso tristemente che le prossime candeline saranno le fatidiche 40.

Continuo a leggere i documenti e subito noto troppi cognomi per una famiglia regolare. Accorgendosi della mia confusione subito mi spiega “ due figli sono di un primo matrimonio, gli altri due del mio attuale marito”. Ora che ho le idee più chiare comincio a inserire i dati. Per prima cosa devo creare il codice memonico al nuovo utente. Digito sulla tastiera le prime 3 lettere del cognome seguite dalle prime 3 del nome e nel monitor lampeggia un malizioso VIAGRA. Non riesco a mantenere un contegno professionale e scoppio a ridere. Per fortuna la signora Viagra non si offende, anzi capito il gioco di parole è molto divertita “Questa la devo raccontare”, mi dice.

Mi detta i nomi del cospicuo nucleo familiare “ ….Antonio Junior”

“Junior??” domando incredula. “Si Junior, pensa un po’ te che tipo che era il mio primo marito! Ha voluto chiamare così nostro figlio..come se dovesse mantenere chissà che nome!” esclama ironica. Ormai ci diamo del tu e passa alle confidenze “sai… sono una che sbaglia due volte. Mi sto separando anche dal secondo”. “cose che capitano” minimizzo io. “Mi sono accorta che faceva delle differenze tra i bambini, tra i suoi e gli altri più grandi. A quel punto è finita” .

Continuiamo la dichiarazione e nel frattempo usa il cellulare in una maniera frenetica. Chiama il commercialista precedente perché ci siamo accorte di alcune inesattezze, poi chiama la cognata (ex?). Riceve la chiamata del suo principale, parla con lui molto confidenzialmente , in maniera un po’ intrigante chiede “ma quando ti trovi una fidanzata?”.

Poi chiama un amico, conversa con lui sottovoce e quasi in codice, “ma cosa stai mangiando?” esclama ad alta voce.

A questo punto sono più interessata alla sua situazione personale che a quella patrimoniale. Improvvisamente ricordo che un cliente alcuni giorni prima mi aveva chiesto se poteva mandare un’amica per fare la dichiarazione. Non riesco a trattenermi “ma sei l’amica di Fabrizio?” Lei candidamente mi risponde “si, ma mica conviviamo. Per ora preferisco così. Io e mio marito siamo persone civili…abbiamo preso atto che il nostro matrimonio è finito, ma per ora conviene a tutti e due restare così”.

Fabrizio lo conosco da un po’ di tempo, è un ragazzone ruspante di 34 anni. E’ stato sposato con una brasiliana dalla quale appena ventenne ha avuto 3 figlie. Poi la brasiliana probabilmente ha preferito altri lidi e se ne è andata lasciandogli le bambine. “Certo che se andate a vivere insieme fate una bella famiglia!! 4 più 3 !!”, Poteva dirmi di farmi gli affari miei invece ride contenta “ A me non spaventa niente. L’importante è essere sereni poi affronti tutto”.

Finiamo la dichiarazione, mi chiede se può portare quella dei suoceri (quali?) e fissiamo un appuntamento. Non vedo l’ora.