Racconti dietro l'angolo

Piccole storie per raccontare

mercoledì 25 gennaio 2017

lunedì 2 maggio 2016

6 Torneo Ping pong letterario

https://www.youtube.com/watch?time_continue=3&v=idoH3brr8mo

Premio L'essere Armonia- Assisi



PARTECIPANTI 342 autori (da tutta Italia, dalla Svizzera e dall’Albania)
Sezione A (Poesia) 587 componimenti
Sezione B (Racconto breve) 99 testi

COMMISSIONE
Dott. Luciano Pellegrini (Presidente)
Prof. Giuseppe Bearzi
Prof. Piero Calmanti
Prof.sa Deanna Mannaioli
Dott.sa Elena Quadri

PREMIO L’ESSERE ARMONIA PER LA CULTURA:
Pietro Cappannini

PREMIO L’ESSERE ARMONIA PER IL SOCIALE
Maria Gavina Pozzolini




PREMIATI
Sezione A Sezione B

1° Premio
Alla Melnychuk
“Andando verso Castiglion Fiorentino”

2° Premio
Franca Donà ”Giorni”

3° Premio
Antonio Bicchierri ”Emarginazione”

Premio della Critica
Elvio Angeletti
“Gente strana i poeti”

Premio del Presidente
Conny Tommasone
“In cambio d’amore”

Menzione Speciale
Rosa Maria Chiarello “Risveglio”
Roberta Morellini ”Il merlo”
Caterina Muccitelli ”Pensiero”
Grazia Spinelli ”Ingombro” 1° Premio Patrizia Della Marta “Il principio di Archimede” Premio del Presidente Marco Manago’ “L’ultima notte dell’anno” Menzione Speciale Lorella Fanotti “Scarpe bagnate” Giuseppe Mandia “In quel cortile” Fabio Muccin “La neve nel cuore” Alessandro Puletti “Un volto nel mare”

Formiche rosse



Racconti Vincitori ed. XII

Lo staff di Formiche Rosse è felice di comunicarvi i nomi dei dieci vincitori del Premio di narrativa Formiche Rosse ed. 2012-2013.*

Yuleisy Cruz Lezcano  “Le Taniche Gialle”
Lorella Fanotti  “Scarpe bagnate”
Silvia Matilde Lipschitz  “L’amo”
Giovanni Maria Pedrani  “Smartphone”
Silvia Terzani  “L’inganno”
Mario Trapletti  “Ride bene chi rode ultimo

 http://www.premioformicherosse.org/edizioni-passate/racconti-vincitori-ed-xii/

lunedì 25 maggio 2015

INCONTRO A GARIBALDI




Da quando gli avevano detto che nel pomeriggio sarebbe
arrivato il Generale a Sinalunga, Pietro era in uno stato
confusionale. Troppi ricordi, troppe emozioni lo stavano
assalendo. Solo quella mattina aveva saputo del grande
evento e, su invito del comitato, in fretta e furia aveva convocato
la banda. Non c’era stato neppure il tempo per fare
una prova ed ora eccoli qui, senza nemmeno una divisa, in
marcia verso la Pieve. Gli strumenti li avevano caricati su
un barroccio, accanto al vetturino c’era don Giovanni, che
non si tirava mai indietro quando c’era da mettersi in mostra.
Tutti sapevano che Garibaldi era di passaggio diretto
a Perugia, e che credeva, don Oreti, che andasse a baciare
la mano a qualche vescovo?
A quindici anni facevo all’amore.
Daghela avanti un passo, delizia del mio core!
A sedici anni ho preso marito.
Daghela avanti un passo, delizia del mio core!
Qualcuno aveva intonato La bella Gigogin, qualche altro
rincorse il carro per prendere lo strumento e accompagnare
il canto. Cantavano con entusiasmo ma pochi sapevano
cosa significava quella che sembrava solo una canzonetta
popolare. Pietro ne conosceva il significato, sapeva che i
piemontesi avevano risposto all’assalto austriaco a Magenta
con quelle parole “Daghela avanti un passo” quando
finalmente il re Vittorio Emanuele si era deciso a prendere
una posizione. E sapeva che nel campo di battaglia erano
rimasti uccisi tra austriaci e franco piemontesi più di diecimila
uomini.
I canti continuavano, aveva preso a girare anche un fiasco
di vino che non faceva male all’allegria generale.
E lo mio amore sé n’è ito a Siena,
portommi i brigidin di due colori:
il càndido è la fè che c’incatena,
il rosso è l’allegria de’ nostri cuori.
Ci metterò una foglia di verbena
ch’io stessa alimentai di freschi umori.
Quanto sangue, quanti morti per quella bandiera, ed ancora
non era finita.
Pietro era stato granatiere ed era a Firenze nell’esercito del
Granduca Leopoldo in quell’aprile del 1859. Aveva visto il
fermento tra gli ufficiali dell’esercito, che poi si era propagato
anche tra le file delle truppe. Circolava un proclama a firma
dei soldati toscani, un invito a schierarsi con il Piemonte, critico
sulla posizione neutrale assunta dal Granduca. E quando
il giorno di Pasqua, mentre sfilava la Corte verso il Duomo,
avevano fatto finta di non udire il comando di presentare le
armi? Da quel giorno era stato un susseguirsi di agitazioni e
di proclami, alla fine Leopoldo II concesse il tricolore alle
truppe ma poi scappò dai suoi amici austriaci senza voler
rinunciare alla Corona. Il municipio di Firenze nominò il governo
provvisorio e il Generale Ulloa prese il comando del
suo reggimento e radunò i volontari per la Lombardia per
assegnarli al Principe Napoleone Gerolamo.
- Pietro non cantate con noi? Non siete contento di rivede’
Garibaldi? Ma dite, l’avete conosciuto davvero?
- L’ho visto ma mica ero un Cacciatori delle Alpi! I toscani
erano nei cacciatori degli Appennini poi quando anche noi
si doveva anda’ con Garibaldi, c’è stata Villafranca, quei
sudici dei francesi ci hanno venduto. Te sei giovane Carlino,
‘un lo sai mica quanto è sporca la politica.
Ora ve la canto io una canzone, vediamo se la sapete, è il
canto del volontario toscano - e, con la bella voce di tenore,
Pietro intonò il suo solo
Addio, mia bella, addio:
l’armata se ne va;
se non partissi anch’io
sarebbe una viltà!
Non pianger, mio tesoro:
forse ritornerò;
ma se in battaglia io moro
in ciel ti rivedrò.
Non è fraterna guerra
la guerra ch’io farò;
dall’italiana terra
lo straniero caccerò.
L’antica tirannia
grava l’Italia ancor:
io vado in Lombardia
incontro all’oppressor.
- E dopo che c’eravamo fatti ammazzà per liberare i lombardi,
lo sai che hanno deciso a Villafranca? Che in Toscana
ritornassero i Lorena, ma ‘un ce l’hanno rivoluti. Loro
hanno visto la mal parata e ‘un so’ tornati. Peggio è andata
a Nizza, che s’è ritrovata francese. Hanno fatto il mercato
alla faccia di Garibaldi che s’è ritrovato “straniero in patria”.
Avevano appena passato il Cimitero e un po’ per rispetto,
un po’ perché cominciava la salita della Bertesca, i canti
e la musica si erano spenti. Un paio di uomini più anziani
si erano seduti sotto l’ombra dei gelsi che delimitavano
la strada, nel mezzo del giorno il sole era ancora caldo in
quel fine settembre.
- Quanti anni hai Carlino?
- 17 e voi Pietro?
- Io so’ del 33. Avevo la tua età quando Garibaldi è passato
per Bettolle, nel 49, mentre scappava da Roma. C’era
anche Anita porina che stava male, un paio di Garibaldini
si fermarono dal Passerini, si fecero da’ un cavallo, il
pane e un po’ di soldi. Garibaldi era inseguito dall’esercito
del Granduca, allora per non farsi chiappa’ si divisero in
più gruppi. La gente aveva paura della truppa di Garibaldi,
non tutti erano galantomini e per mangia’ durante la
fuga dovevano requisi’ quel che trovavano. A Chiusi gli
fecero un’ imboscata e, nello scontro, presero due lancieri
di Garibaldi. Allora il generale prese in ostaggio 14 frati
di Cetona per fa’ il cambio co’ su’ lancieri. Ma il vescovo
‘un accettò e Garibaldi se li tirò dietro fin quasi Arezzo. Li
fece marcia’ in mezzo ai soldati e questi che cantavano le
giaculatorie e i garibaldini che gli dicevano che se ‘un ne
stavano zitti li avrebbero fucilati. Ci sarebbe voluto fra’
Pantaleo per badalli! Ma poi alla fine Garibaldi li rimandò
indietro. So’ passati 20 anni Carlino e con Roma siamo a
punto e niente.
- E chi è Fra’ Pantaleo?
- è un frate che va sempre dietro a Garibaldi. L’ha conosciuto
in Sicilia durante la liberazione, ho sentito dire che
il frate voleva combatte’ con Garibaldi e lui gli disse che
‘un aveva bisogno né di frati né di preti. Allora il frate alzò
il saio e rispose a Garibaldi “ e di queste avete bisogno?” e
mostrò tutte le armi che aveva nascosto sotto la tonaca. E
da allora ‘un ha più lasciato Garibaldi.
Ma lo sai che a combatte’ in Lombardia c’erano anche
ragazzi della tua età? Il battaglione degli adolescenti era
chiamato. Poi alla fine della guerra a noi ci arruolarono
nell’esercito del Regno di Sardegna, il battaglione dei ragazzi
invece fu sciolto. E io so’ rimasto in Piemonte fino
al ’61.
- E siete stato coi mille?
- Macchè, io ero nell’esercito regolare, con Garibaldi c’erano
i volontari. I Savoia stavano con i piedi in due scarpe,
uno in quella del papa, bella morbida e infiorettata e uno in
quella dell’Italia, tutta sfonda. L’esercito del Regno di Sardegna
occupò le Marche e l’Umbria ma il Re ‘un voleva
che Garibaldi arrivasse a Roma e prese la pappa scodellata
a Teano. S’è fatto l’Italia ma le scarpe degli italiani so’
rimaste sfonde.
Ormai erano arrivati a Guazzino e strada facendo altre persone
si erano aggiunte al gruppo iniziale.
Erano ricominciati i canti e le musiche ma Carlino pendeva
dalle labbra di Pietro.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
- Il canto degli italiani, Carlino lo sai chi l’ha scritte le
parole? L’ha scritte un giovine appena più grande di te.
Si chiamava Goffredo Mameli ed aveva 20 anni quando
lo scrisse e due anni dopo era belle che morto in battaglia
nella repubblica romana.
- Ma voi come fate a sape’ tutte ‘ste cose?
- Quando ero in Piemonte giravano tante voci, poi io leggevo.
E col fatto che sapevo la musica, ogni tanto mi chiamavano
a sona’ e ho conosciuto tanta gente.
- Sapete legge’ davvero Pietro?
- Si che so’ legge’ e te no?
- So’ andato a scuola un anno solo, poi è morto il mi’ babbo
e ‘un mi ci hanno più mandato. So fa’ solo la mi’ firma.
- Perché ‘un vai alla Società operaia? M’han’ detto che ora
fanno la scuola serale.
- E se poi ‘un so’ capace?... però mi garberebbe.
Qualche ragazzo era entrato in una vigna e tornato con un
po’ d’uva ormai matura, rimproverato dai più vecchi che
comunque non disdegnavano di pelare qualche acino.
Ormai la Pieve era vicina, si era già attraversata la Foenna,
e il maestro richiamò tutta la banda all’attenzione. Visto
che avevano saputo di questa celebrazione solo la mattina
e non c’era stato tempo di esercitarsi, invitò tutti a provare
l’Inno dedicato a Garibaldi. Tutti si precipitarono al carro
per prendere il proprio strumento, chi sapeva leggere tirò
fuori il libretto e chi non sapeva leggere cercò le note tra la
testa e le labbra. I musicanti si inquadrarono nelle consueta
posizione di marcia , il maestro dette il tempo e la musica
riempì l’aria. La banda suonava acquistando sempre
più sicurezza nella melodia, allora la gente che seguiva si
unì alla musica con la voce
Va’ fuori d’Italia,
va’ fuori ch’è l’ora!
Va’ fuori d’Italia,
va’ fuori o stranier!
Se ancora dell’Alpi tentasser gli spaldi,
il grido d’allarmi darà Garibaldi,
e s’arma - allo squillo che vien da Caprera -
dei Mille la schiera che l’Etna assaltò.
E dietro alla rossa avanguardia dei bravi
si muovon d’Italia le tende e le navi:
già ratto sull’arma del fido guerriero,
l’ardito destriero Vittorio spronò.
Finita la prova improvvisata Carlo si affiancò di nuovo a
Pietro e ripresero a parlare.
- Pietro ma com’è che Garibaldi è venuto a Sinalunga?
- è più di un mese che lo aspettavano, d’agosto il generale
è stato alle terme a Rapolano per curarsi l’artrite e la su’
gamba. Allora un comitato di Sinalunga è stato a trovallo e
l’ hanno invitato a veni’ qua. E Garibaldi ha accettato, ma
si è saputo che arrivava oggi soltanto stanotte. Così hanno
dovuto fa’ tutto in fretta e in furia e non c’è nemmeno il
sindaco a riceverlo, quei codini del comune hanno trovato
mille scuse e ‘un si fanno vede’! Poi siamo vicini allo
Stato Pontificio, mi sa che il generale vole tastà il terreno…
- Ma perché gli spararono in Aspromonte?
- Eh! Bella domanda! Prima gli fecero attraversa’ tutta la
Sicilia e il mare fino alla Calabria, e poi lo presero a fucilate
perché Garibaldi voleva arriva’ a Roma, ma il Papa
aveva Napoleone a proteggerlo e il Re ‘un voleva mettersi
contro Papa e Francia.
Il corteo era ormai arrivato alla Pieve, passarono davanti la
stazione ferroviaria.
- Vedi Carlino, quando so’ partito nel ’59 ancora ‘un c’era
il treno, quando so’ tornato nel ’61 mi son fatto mezza Italia,
da Fossano a Sinalunga, tutta in treno. Ma! Miracoli
moderni!
Qui dovevano attendere l’arrivo del generale per poi ac-
compagnare la carrozza a Sinalunga, dove ci sarebbe stato
il ricevimento. Finalmente dalla strada di Foiano dopo diverse
ore di attesa si vide arrivare la carrozza con il famoso
viaggiatore. La banda precedette la carrozza dei fratelli
Salvatori che da Marciano lo avevano accompagnato, dietro
si accodò gente giunta da tutta la Valdichiana, formando
un festoso corteo che accompagnò Garibaldi tra suoni
e canti fino a Sinalunga.
All’ingresso del paese era stato costruito un arco di arbusti
verdi e in lettere rosse una scritta. Pietro si girò verso
Carlo e gli lesse la dedica Sinalunga al duce dei Mille. In
paese c’era anche la banda di Sinalunga in pompa magna
e i bandisti bettollini strabuzzarono gli occhi alla vista
delle belle divise. Avevano una lunga giacca rossa con le
mostre turchine e i bottoni bianchi, pantaloni turchesi con
la banda laterale bianca e perfino il cappello, una feluca
col pennacchio bianco e celeste. Entrarono in una piazza
piena di gente entusiasta, molti vestiti con la camicia
rossa dei garibaldini, tutti in attesa di vedere il Generale
più amato. Le due bande si alternavano suonando l’Inno
scritto da Luigi Mercantini per Garibaldi. La carrozza non
riusciva a procedere tra la folla e fu costretta a fermarsi.
Il Generale scese sorretto da alcuni membri del comitato
sinalunghese, mentre altri cercavano di fare spazio tra la
folla che nonostante i cavalli imbizzarriti non si allontanava
dalla carrozza acclamando Garibaldi.
Il Generale che ormai aveva 60 anni e camminava faticosamente
a causa dell’artrite e dei postumi della ferita al
malleolo, riusciva a trasmettere ancora tutto il suo fascino.
Al collo la sua immancabile sciarpa nera che si intravedeva
sulla camicia rossa e il berretto nero orlato d’oro,
passò tra la folla per raggiungere la casa degli Agnolucci,
che lo avrebbero ospitato. Entrato in casa si affacciò su un
terrazzino di ringhiera dove tenne un breve discorso sui
propositi verso Roma. Dopo aver calmato gli animi che
incitavano “Morte ai preti” invitando alla concordia, unica
strada all’unità del paese, rientrò nella casa dove si tenevano
i festeggiamenti.
I notabili entrarono nella casa dell’Agnolucci. La gente
della piazza lentamente si sperse, molti si incamminarono
per la strada verso la Pieve per rientrare nei paesi vicini.
Così fece anche Pietro, ignaro che quel giorno sarebbe
passato alla storia come l’ennesima incoerenza di un lungo
e contorto percorso chiamato Risorgimento.