Racconti dietro l'angolo

Piccole storie per raccontare

domenica 7 marzo 2010

L'abbigliamento del fochista

L’ABBIGLIAMENTO DI UN FUOCHISTA (liberametne tratto dalla canzone di De Gregori)

Il porto era affollato in quella tiepida mattina di primavera. Gli scaricatori si muovevano freneticamente dalla banchina alla nave, passandosi bauli carichi di una vita. La vita di chi fuggiva da qualcuno o da qualcosa, la vita misera di chi andava incontro alla speranza, quella di chi cercava nel nuovo mondo occasioni vergini di speculazioni.
Molti erano già saliti sulla nave e si sbracciavano sporgendosi dalla balaustra, cercando con lo sguardo per l’ultima volta un volto conosciuto tra chi era ancora sulla banchina del porto. Sventolavano cappelli e fazzoletti, come a scacciare il timore dell’ ignoto, fastidiosa mosca che ronzava loro intorno dal momento in cui avevano deciso la partenza. Altri erano ancora sulla panchina, il viso salato dalle lacrime di arrivederci che sapevano tanto di un addio. Non erano molti coloro che avevano affrontato il disagevole viaggio fino a Genova per accompagnare i famigliari che partivano verso le Americhe.
- “Mamma, questa volta non torno”
Il giovane teneva gli occhi bassi, puntati sulle scarpe nuove, un regalo di suo zio calzolaio al paese. Stonavano le scarpe di cuoio alte, ancora senza un graffio, con il resto dell’abbigliamento. I pantaloni verdi erano stinti e rattoppati, legati sotto il ginocchio. Anche la camicia aveva visto tempi migliori e i quadrettoni scoloriti erano coperti da un altrettanto misero giacchetto marrone dai bottoni scompagnati. Sopra la testa rasata un berretto nero, lo accompagnava in ogni viaggio. “Quello che para il freddo para anche il caldo”. Una strana cintura cucita in casa, fermava i pantaloni e nascondeva i risparmi.
Altri viaggiatori, poveri quanto lui, per il viaggio avevano tirato fuori dalla canfora il vestito della festa che magari era stato l’abito da sposo e forse sarà anche quello del proprio funerale.
Antonio non possedeva un vestito buono, poi lui durante il viaggio avrebbe dovuto lavorare. Ma quello sarebbe stato l’ultimo viaggio nella pancia della nave. E se un giorno fosse tornato non sarebbe stato per lavorare nella caldaia , ma di sopra, in una cabina sul ponte da dove avrebbe visto il cielo e il mare. Non voleva più passare giorni e notti nell’afa irrespirabile delle caldaie e le poche ore di riposo nell’umido della cabina che divideva con gli altri operai, tra il tanfo degli odori umani e lo scorrazzare dei topi. Che poi non aveva mai capito da dove arrivassero in una nave. Era stanco di passare giorno dopo giorno sotto il livello del mare, senza vedere l’aria, annerito dentro e fuori dal fumo del carbone che bruciava senza sosta.
Non riusciva a guardare la piccola donna vestita di nero in un lutto infinito, che aveva rallevato da sola lui e i suoi fratelli con la forza della sue braccia e del suo cuore.
Ora che nessuno di loro aveva più bisogno di lei e la stanchezza di una vita la stava prendendo, restava sola. Se ne erano andati tutti i suoi figli, chi in città a fare l’operaio, chi a lavorare uno straccio di terra del marito dove non c’era posto per lei. Il più grande, Armando, era rimasto sepolto in una miniera e non avevano nemmeno ritrovato il corpo per poterlo piangere. Antonio era il più giovane, erano due anni che lavorava come fochista sulle navi che attraversavano l’Atlantico. Prima le piaceva pensare che Armando tirasse fuori il carbone per Antonio che lo scaraventava a palate nelle caldaie fumanti della nave. Ora pensava che Armando se l’era preso la terra e che Antonio se lo sarebbe preso il mare.
Il pensiero che sarebbe stata l’ultima traversata placava il presagio ma sapeva che quello era comunque un addio eterno. Non l’avrebbe visto più questo suo figlio così bello e forte di cui andava così orgogliosa. Avrebbe voluto mandarlo a scuola, era bravo lui con i numeri e le lettere. Per un paio di anni lo aveva fatto, ma poi c’era stato bisogno anche del suo di lavoro. Gli altri fratelli più grandi si erano rivoltati contro la madre, se Antonio perdeva tempo a scuola perchè loro dovevano lavorare? E il piccolo Antonio non era più tornato a scuola.
Ora se lo sarebbe preso un’altra donna aldilà di questo mare immenso. Una donna di una razza diversa. Antonio le aveva raccontato che in America c’erano donne con la pelle nera come la pece e donne bianche come il latte. Donne diverse dalle sue sorelle e dalle donne del paese. Una di queste un giorno lo avrebbe stretto un attimo di troppo tra le sue gambe e lui non sarebbe tornato. I suoi figli non avrebbero visto il colore del grano maturo, corso dietro alle lucciole le notti d’estate, rubato l’uva matura dai filari del padrone. Non avrebbero ascoltato le ninne nanne nel suo dialetto ma avrebbero parlato una lingua sconosciuta. Ma forse i suoi figli avrebbero avuto le scarpe ai piedi e la pancia piena tutti i giorni e sarebbero potuti andare a scuola, senza camminare per un ora nel fango.
Le sue mani callose strinsero quelle altrettanto dure di Antonio, ingollò le lacrime in gola – “Buona fortuna figlio mio”.