Avevo accettato l’invito a partecipare alla scampagnata per non sembrare la solita guastafeste, ma non ero dello stato d’animo migliore per stare in compagnia. Il posto era bello, ma c’era troppa gente e non tutta godeva della mia simpatia. Andrea stava giocando con gli altri bambini e le ragazzine più grandi si erano improvvisate baby sitter. Avevo ormai superato la dose massima di cazzate da ascoltare in un giorno quindi annunciai che andavo a fare una passeggiata. Se qualcuno si azzarda a dire “vengo con te “gli sparo, pensai. Nessuno ebbe da dire sulla mia fuga e mi incamminai verso il bosco. Speravo di trovare un po’ di silenzio. Per un po’ il vociare spensierato mi seguì nel sentiero che avevo preso, ma lo sentivo sempre più distante man mano che mi inoltravo nel bosco. Tenni il sentiero, non ho mai avuto un grande senso di orientamento, ci mancava di perdermi per diventare lo zimbello della compagnia. Non so perché ce l’avevo con loro, ma oggi non li sopportavo. Forse perché erano gli amici di sempre ed io volevo rompere con tutto quello che di scontato c’era nella mia vita? O forse perché sapevo che erano i soliti ipocriti, appena allontanata sarei diventata io l’argomento di conversazione.
Doveva esserci un vecchio rudere da queste parti. Dalla strada si vedeva, non un vero castello, forse una villa padronale abbandonata. Superai con il fiatone una salita e per l’ennesima volta pensai che avrei dovuta fare un po’ di attività fisica. Il bosco si faceva più rado e il silenzio più profondo. Vidi la costruzione. Era in completa rovina, il tetto non esisteva più, probabilmente solo i muri perimetrali erano restati in piedi. Doveva esser stata una bella villa. Un po’ titubante ma curiosa varcai l’ingresso. Non c’era niente, né pavimenti né tramezzi. Grosse lastre di pietra intralciavano la mia perlustrazione. Mi misi seduta su una di queste. La camminata mi aveva stancato. Raccolsi le ginocchia al petto appoggiandoci la testa. Presi una ciocca di capelli tra le dita, come faccio sempre quando cerco di rilassarmi, e cominciai ad arricciarla avvolgendola a spirale nel dito indice. Chiusi gli occhi gustandomi quella pace, solo il canto degli uccelli rompeva il silenzio.
Sobbalzai al contatto di un’altra mano nei miei capelli. Soffocai il grido che era affiorato in gola, immaginando di chi fossero quelle mani che da dietro stavano ora accarezzando la mia faccia. Le mani tornarono sulla nuca. I pollici cominciarono a massaggiare ritmicamente la fossetta dietro il collo, mentre le altre dita si stavano allargando su tutta la testa. Erano dita lunghissime. Sentivo sfrigolare i miei capelli e un languore paralizzante stava attaccando i miei muscoli. Un alito caldo mi solleticava il collo, buttai indietro la testa per vedere in faccia l’uomo anche se sapevo perfettamente chi era. Ma le mani mi bloccarono dolcemente la testa. Si era inginocchiato dietro di me, nella grande pietra, sentivo i suoi ginocchi che spingevano i miei glutei. Le mani erano ora scese sul collo, come a volermi strangolare. Invece polpastrelli morbidissimi mi stuzzicavano la gola, sfiorandola impercettibilmente dal mento fino all’incavo della trachea. Cominciavo a capire da dove nasceva il modo di dire “sciogliersi per qualcuno”. Qualcosa dentro di me si stava effettivamente sciogliendo, provocando un piacevole e umido calore.
Bloccai il braccio che mi stava accarezzando. Riconobbi la camicia azzurra che gli avevo visto indosso quella mattina. Sgancia la coppia di bottoncini del polsino e appoggiai le labbra al polso, là dove si vede l’azzurrino della vena. La mia lingua si mosse autonomamente, formando dei circoli concentrici e, come una lumachina, lentamente cominciò a salire verso il gomito. L’altra sua mano mi strinse alla vita, avvicinandomi in modo che lo sentissi premere contro di me. Si insinuò dentro la mia maglietta, correndo sicura alla ricerca di un seno. Lo trovò e strinse delicatamente il capezzolo eretto. Incapace di trattenermi, morsi il braccio che stavo baciando. Si liberò dalla mia stretta ed anche l’altra mano finì sotto la maglietta, coprendo a coppa ciascun seno. Ondate incontrollate di calore partivano dalla nuca fino arrivare ai piedi che avevo liberato dalle scarpe da tennis. Non c’era controllo, non c’era pudore in quello che stavamo facendo. Portai le mie mani dietro la schiena per cercare di sganciare i suoi pantaloni e lui fece lo stesso con i miei riuscendoci molto più velocemente. Dopo un po’ di manovre riuscii nell’intento mentre la sua mano stava già giocando con l’elastico dei miei slip.
Temevo il ritorno. Avevamo cercato di rientrare ad una certa distanza, ma l’assenza era stata troppo lunga per tutti e due e non poteva essere passata inosservata.
Mi sentivo le guance in fiamme, forse per l’intensità di quello che era successo o forse a causa della barba di mezza giornata sulla mia pelle.
Era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere, non ero avvezza a mentire, come me la sarei cavata?
Appena arrivata mi accorsi che l’atmosfera era tesa, appena sbucai dal sentiero Carlo mi ordinò di salire in auto, aveva già rimesso tutto nel bagagliaio ed anche Andrea era pronto per partire. Tentai di chiedere con indifferenza cosa era successo, ma mi bloccai imbarazzata sotto gli sguardi di tutti. Era meglio allontanarsi da lì. I pochi chilometri che ci separavano da casa passarono in un pesante silenzio, mentalmente cercavo di prepararmi a quello che sarebbe venuto dopo. Aveva capito cosa era successo, era solo un dubbio o mi aveva seguito?
Non so cosa mi aveva spinto a quell’avventura, erano mesi che tra me e Luca correvano sguardi carichi di mille aspettative ma non era un amore, o perlomeno ancora non lo era. Valeva la pena sacrificare la mia famiglia per un embrione di passione? Pensavo al bambino, era lui la mia famiglia, non certo Carlo, ormai erano anni che avevo preso atto che non eravamo più una coppia. Ne avevamo parlato fino allo sfinimento ma non capiva, erano lingue diverse quelle che parlavamo. Io rivelavo un amore che si era spento, lui un possesso sempre più rovente per me, per il bambino. Eravamo arrivati, Andrea si era addormentato, stanco delle corse per i prati, lo presi in braccio ed entrai in casa. Lo misi nel suo lettino, era caldo come un biscotto appena sformato. Tuffai il viso nell’incavo del suo esile collo, quante volte avevo pianto accanto a lui che dormiva beato e ignaro. E quanto coraggio avevo cercato in quel piccolo essere che era la ragione della mia vita. Nei momenti più bui avevo anche pensato alla morte con sollievo, ma ad una madre è negato anche questa estrema libertà.
La porta sbattè facendomi sussultare. Era entrato in casa, era arrivato il momento del chiarimento. Avevo paura. Una delle cause del mio disamoramento era stata proprio la sua aggressività, la rabbia che sempre scaricava su di me, capro espiatorio di ogni suo malumore. Mi tirai su dal lettino, chiusi la porta della cameretta e mi feci coraggio pensando che Andrea poteva svegliarsi, si sarebbe controllato.
“Sei una puttana, l’ho sempre detto che la tua è una razza di puttane e di ubriachi! Ma scendere così in basso, sotto gli occhi di tutti!Ti sei divertita eh!! Era eccitante sapere che io ero là a pochi metri mentre ti facevi sbattere da quell’imbecille?”
Zitta, Sara, non dire niente , resisti, tieni la tua boccaccia chiusa, fallo sfogare. Se apri la bocca è finita, ti mette le mani addosso e si sveglia Andrea.
Intanto che inveiva mi spintonava verso il muro. Chiudi la bocca chiudi gli occhi, è solo un incubo.
“Hai bisogno di emozioni forti per godere? Vuoi questo?” . Con un colpo mi lacerò la maglietta, segnandomi il collo. Non conoscevo quell’uomo che mi stava assalendo, non era il padre del mio Andrea, non c’era lo stesso sangue nelle loro vene.
“Non vuoi cara? Hai già fatto il tuo lavoro per oggi? Su da brava fai gli straordinari per quel cornuto di tuo marito.” Si era inginocchiato di fronte a me, forse crolla, resisti Sara è tutto finito, ora ti prendi Andrea e te ne vai. Improvvisamente mi prese le caviglie e mi tirò violentemente verso il basso.Sentii mancare l’appoggio da sotto i piedi, urlai.
Non so dopo quanto rinvenni , ero nuda sul letto e stavo tremando.
Lo scrosciare della doccia mi gettò nell’angoscia. Carlo era ancora in casa. Mi vestii in fretta, avrei preso Andrea e sarei andata via. Dove non lo sapevo, ma da qualche parte ci sarebbe stato posto per me, l’importante era fuggire da qui. Non feci in tempo a mettere in atto il mio proposito. Mi bloccò sulla porta con il bambino in braccio. “Dove credi di andare?”
“Me ne vado”
“Te sei libera di andartene, ma Andrea resta qui”
“ sei pazzo, Andrea viene con me “
“Scordatelo, rimettilo nel letto, non vedi che si sta svegliando!”
Non potevo permettere che il piccolo assistesse ad una scenata, per fortuna non si era accorto di quello che era successo. Lo portai di nuovo in camera e mi accasciai sul tappeto. Ero in trappola, sapeva che non me ne sarei mai andata senza il bambino, era la sua arma e lo sapevo bene. “Vieni di qua, dobbiamo parlare”. Mi alzai a fatica, solo ora mi rendevo conto delle conseguenze della caduta, ero tutta ammaccata. Ma non erano le ammaccature sulle spalle a preoccuparmi. Erano altri i lividi che non si sarebbero mai assorbiti. Mi sedetti all’estremità opposta da lui, pronta ad ascoltare la mia condanna alla prigionia eterna.
“ Ci sono due alternative, la prima è che te ne vai e non ti fai più vedere finchè campi, né da me nè dal bambino. Sei morta per tutti e sinceramente non me ne frega nemmeno niente di quello che farai. La seconda è che resti qui, ma le regole le faccio io e se sgarri una sola volta te ne faccio pentire.”
“Se io me ne vado come pensi di occuparti del bambino? Lascialo a me, lo potrai vedere quando vuoi, e crescerà tranquillo, con un padre e una madre. Ti prego Carlo, non ti far vincere dal risentimento!”
“Me la caverò, credi che sia un incapace, che non sia in grado di crescere un bambino? E te invece come pensi di cavartela? Sei sola, non hai un lavoro, non hai una famiglia alle spalle, pensi che ti mantenga io? Scordatelo! Chi credi che ti affiderebbe un bambino nelle tue condizioni? Sei a terra economicamente ed anche di testa! Vuoi che tiri fuori la storia della tua depressione? Chi affiderebbe un bambino ad una morta di fame perlopiù in analisi come te? Pensaci , non hai alternative”
Aveva ragione, un conto era una separazione civile, non avrei avuto chance in una lotta all’ultimo sangue. Non avevo risorse economiche, nè affettive a sostenermi.
Non volevo piangere, non dovevo dargli questa soddisfazione. Dovevo mostrare la donna forte che ero o perlomeno quella che volevo diventare.
Mi alzai e tornai in camera del bambino. Stava iniziando la mia agonia.
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Dovevo rendere conto al padre di mio figlio di ogni minuto, di ogni centesimo, di ogni chilometro, perfino di ogni sguardo. Anche quante docce facessi era motivo di sospetto. Ogni sera controllava il credito del mio cellulare e il conta chilometri dell’auto, spulciava il resoconto della bolletta del telefono di casa e mi chiamava continuamente perché non uscissi. Accompagnavo il bambino a scuola e tornavo a casa.
Aveva preteso di continuare a dividere lo stesso letto e la notte mi prendeva con cattiveria, ero una cosa sua da usare e ci teneva a farmelo capire. Ma io ero diventata brava, avevo imparato a scappare. Mentre le sue mani affondavano nella mia carne, io me ne andavo. Correvo incontro alle onde in una spiaggia oppure dietro a enormi farfalle iridescenti in un prato profumato.
Avevo provato a farlo ragionare, ma non ammetteva transizioni. Potevo andarmene ma senza il bambino. Senza Andrea sarei morta, tanto valeva morire accanto a lui.
Cercavo di mostrarmi serena con il piccolo ma non sempre ci riuscivo e anche lui era diventato taciturno e non capiva la tensione che stava soffocando la sua casa.
Una mattina mentre accompagnavo Andrea a scuola uscendo dalla rimessa rigai l’auto. Non era una grande cosa, ma sicuramente avrebbe innescato un’altra scenata.
Avevo subito offese e urla per molto meno, come quando dimentico accesa la lavatrice e la lavastoviglie e salta il contatore. Sono un’imbecille buona a nulla, capace solo di scopare con il primo venuto. Io allora sto zitta zitta e torno a correre dietro alle mie farfalle.
Come immaginavo il danno all’auto lo mandò in escandescenze. Non poteva fidarsi di me nemmeno per portare Andrea a scuola, un giorno o l’altro avrei ucciso suo figlio. Pretese che facessi la stessa manovra davanti a lui, per dimostrarmi che ero un handicappata.
“Ci passerebbe un autotreno! Come cazzo hai fatto a non vedere lo stipite? Avevi come sempre la testa fra le nuvole! A chi pensavi eh!”
Portai di nuovo dentro l’auto, fermandomi a mezzo metro da lui, la marcia ingranata e il piede sulla frizione. “Vieni avanti , cretina!”. Il mio piede sinistro si sollevò di colpo, come avesse una propria volontà. L’auto schizzo in avanti. Non vidi il suo sguardo. Io ho sempre la testa fra le nuvole.
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