Racconti dietro l'angolo

Piccole storie per raccontare

sabato 27 ottobre 2007

BRICIOLE



“Vien qua Pichino” bisbigliò con la voce dura a mascherare la tenerezza dell’intenzione lo zio Santi. Il piccolo Gino si acquattò furtivamente sotto il tavolo e il vecchio zio gli diede qualche pezzettino di carne. Gino non era un cane ma il più piccolo dei 12 bambini di casa Ginetti. Lo zio Santi era il fratello del nonno, un omone robusto con due baffi alla Stalin e la testa rasata a zero. Gino, che era uno scricciolo tutto orecchie e ossa spigolose, osservava incantato questo vecchio orco buono. La mattina, anche in pieno inverno, si gettava la brocca dell’acqua in testa e con un unico gesto, accompagnato da un sonoro grugnito, si passava la mano dalla nuca al mento.

Erano 26 in tutto e al momento di mangiare si seguiva la rigida regola patriarcale. Prima mangiavano gli uomini, seduti intorno al lungo tavolo. Le donne sbocconcellavano intorno al focolare, le più volte senza nemmeno sedersi, poi toccava ai ragazzi grandicelli, quelli in grado di aiutare nei campi. “Datemi un pochino d’olio!” a volte osava chiedere qualche ragazzo ma la risposta era sempre la stessa “L’olio fa veni’ i grolli!”. Un po’ perché non era lecito rispondere ad un adulto, un po’ perché i mocci al naso ce li avevano i più piccoli, nessuno insisteva nella richiesta.

I più piccoli, i cittini, erano gli ultimi. Gino se non trovava qualcuno che gli allungava qualcosa, spesso e mal volentieri, faceva il digiuno. Mangiare a sufficienza, anche a scapito degli altri, era il fine di tutti. Chi andava al mercato riusciva a far la cresta sulla spesa e a riportare un paio di acciughe che venivano nascoste in camera nel canterano. Ma il puzzo e il continuo andirivieni tradivano la furberia. E allora erano liti furibonde.

Eravamo negli anni 50, nelle città giravano le automobili e ci si riprendeva dalla guerra. In campagna ancora si andava a dormire nel soppalco con le foglie di tabacco appese sopra il letto.

I Ginetti erano contadini che venivano dalla Misericordia, vicino Castiglion Fiorentino, e come tutti i mezzadri lavoravano per il boccon di pane. Il resto era del padrone. Ogni anno il capoccia si recava in bicicletta ad Arezzo a fare i conti con il Papini, il padrone. Ma i conti non tornavano mai e si chiudevano sempre a debito per i contadini e il debito lievitava di anno in anno come la pasta del pane chiusa nella madia.

L’unica era arrangiarsi un po’, vendere le uova per esempio. Oppure sottrarre un maialino appena nato.

Una volta una scrofa partorì 10 maialini e a Fernando non sembrava giusto ingrassarli tutti per quello strozzino del Papini. Appena svezzato ne nascose uno. Ma andò male. Il Papini fece il conto della miscela che prendevano per i maiali e si insospettì. Controllò a tappeto la proprietà e scoprì il maialino nascosto in un piccolo stabbio ai confini del campo. Rischiarono di essere cacciati dal podere, li salvò il fatto che erano vicini alla mietitura e difficilmente il padrone avrebbe trovato da sostituirli.

Con le uova andava meglio ed erano buona merce di scambio. Quando i ragazzi andavano a scuola potevano ogni tanto barattare una coppia d’uova con un panino con la mortadella, oppure con una manciata di spiccioli per comprare la carta e l’inchiostro. Ma che vergogna se suonavano quando la bottegaia li scuoteva vicino all’orecchio! I cittini diventavano rossi fino alle orecchie. I grandi erano più smaliziati. Quando si cominciarono a vedere i biliardini a turno rinunciavano alla colazione e gli spiccioli dell’uovo venivano utilizzati per giocare al calcio balilla.

Un’altra furberia era di fingersi malati. L’uovo sbattuto era la cura di ogni indisposizione , ma spesso la malattia si chiamava fame.

Gino cresceva, ma era sempre il più piccolo, oggetto di angherie e dispetti. In casa c’era una sola bicicletta e a lui non toccava mai. Gino smaniava per poterla provare, se la sognava la notte. Lui con il berrettino con la visiera come Bartali che tagliava un traguardo immaginario in fondo alla discesa di casa sua.

Venne una grande nevicata e nessuno pensò di prendere la bicicletta con quel freddo e le scarpe sfonde. Erano rimasti tutti in casa intorno al focolare, nemmeno gli uomini erano andati nei campi. Era il suo momento, ora o mai più si disse Gino. Si coprì meglio che potè e corse incontro alla sua avventura. Partì a rotta di collo per la stradina che portava al paese, incurante del freddo che gli sferzava le orecchie a sventola e gli intirizziva i diti. Nella neve si andava che era una bellezza ma non era nemmeno a metà della discesa che la corsa si interruppe rovinosamente. Il telaio della bici si era spaccato, inesorabilmente e definitivamente spezzato.

Con i due monconi di ferro , uno per braccio Gino si incamminò a capo basso verso casa, consapevole del danno causato. Temeva una dura punizione invece il padre attaccò la bicicletta rotta in cima alle scale. Ogni volta che Gino entrava in casa si trovava davanti il triste trofeo della sua pedalata. Fernando non gli rivolse la parola per 6 mesi, il tempo necessario ad acquistare un'altra bici di seconda mano.

Appena in grado di andare in giro da solo Gino fu mandato a badare i maiali. Li seguiva con un giunco in mano e finalmente poteva sfogarsi delle prepotenze subite dai cugini sulle chiappe rosa dei maiali. Doveva stare attento che non entrassero nei campi coltivati, altrimenti avrebbero razziato tutto, poi al tramonto riportarli a casa. Uno degli uomini li avrebbe rimessi negli stanzini puzzolenti e lui era libero. In genere i maiali stavano in gruppo, bastava non perdere di vista la lezza massa ondeggiante e il più era fatto. Un pomeriggio invece un maiale si allontanò e Gino se ne accorse ormai arrivato a casa. “Disgraziato!!! Mangiapaneatradimento! Hai perso un maiale!!!ora il tu’ babbo t’ammazza! Sei un bono a niente!” Lo zio s’accorse a colpo d’occhio che mancava un maiale e, toltogli di mano il giunco, cominciò a corrergli dietro sferzandolo sulle gambe. Fino a quando il maiale non fu ritrovato fu costretto a girare per i campi alla ricerca del fuggitivo. E la ricerca durò parecchie ore a suon di frustrate sulle gambe. La domenica quando tutti i ragazzi vennero lavati nella stalla, Gino non voleva spogliarsi davanti agli altri. Le gambe erano a strisce, cangianti dal rosa intenso al viola. Il bagno veniva fatto nella stalla che era il posto più caldo della casa. Una grande tinozza veniva riempita di acqua calda e a turno si immergevano i ragazzi, in ordine di nascita, per poi asciugarli sfregandoli energicamente con un lenzuolo di tela grezza, tessuto in casa. Quando toccava a Gino l’acqua ormai era fredda e sporca e, se erano in vena di dispetti, c’erano anche un paio di pisciate.

Una volta lavati tutti per non sprecare l’acqua tiepida, se non era troppo nera, si metteva in ammollo il bucato.

Difficilmente i ragazzi di campagna andavano a scuola finite le elementari. In casa Ginetti ci aveva provato solo Tullio osteggiato da tutti. Quando si stancò di essere chiamato bighellone per il tempo che passava sopra i libri anziché sui campi, si arruolò in marina. Partì che aveva 15 anni e i pantaloni corti. Tornò con la barba, la divisa ed il diploma in tasca.

Quando il padre ritenne che la preparazione scolastica di Gino fosse sufficiente lo mandò a lavorare in un macello al paese.

La paga consisteva in una cartata di carne la domenica, carne che spesso era polmone e frattaglie ma tanto faceva sangue lo stesso.

Il padrone di Gino non era di quelli che si chiamano onesti. Se capitava non si faceva scrupolo di acquistare a prezzi stracciati bestie morte per poi macellarle e rivenderle in città.

La voce probabilmente si era sparsa e fecero dei controlli. Gli ispettori dell’ufficio igiene vennero al macello e li trovarono proprio mentre macellavano un “santantonio”. Il padrone smaliziato gli aveva spezzato i denti, per poi dire che la bestia era caduta e morta accidentalmente. L’ispettore ironizzò” Ma vi capitano spesso bestie che si rompono l’osso del collo?”

“Ma no!! Per fortuna moiono di rado in questa maniera!!” rispose pronto il macellaio. Al che l’ingenuo Gino esclamò “ E tutte quelle teste seppellite nel retro?”.

Gli ispettori disseppellirono una quantità di teste di santantoni . Sospesero la licenza al macellaio infliggendogli una multa salatissima e decretarono la fine della carriera di Gino come apprendista macellaio.

Fernando, il babbo di Gino, era un uomo tranquillo, vizi non si potevano avere, non c’erano i soldi per mantenerseli. La domenica si concedeva una variazione alla sua giornata di lavoro. Dopo pranzo inforcava la bicicletta e andava un paio d’ore a Cesa a giocare a carte con gli amici. Un caffè, un vinsanto erano la posta in gioco. Tornava verso le 5 in tempo per governare gli animali.

Il Papini informato mandò a chiamare Fernando che dovette andare ad Arezzo anche se non era il tempo dei conti.

Dopo 20 chilometri di pedalate non gli fu offerto nemmeno un bicchier d’acqua. Il Papini lo ricevette nello studio, protetto da un enorme scrivania di noce massello e alle spalle un altrettanto enorme crocefisso che penzolava dal muro.

“Ho saputo che trovi il tempo per andare al bar” esordì subito il padrone, “i mi’ contadini non hanno tempo da perdere e se ce l’hanno non sono òmini che fanno per me”.

Mentre Fernando tornava a casa giurò a se stesso che sarebbe stata l’ultima volta che andava a Arezzo dal Papini.

Nel 68 grazie alla pensione dello zio Santi, ai ragazzi che avevano cominciato a lavorare in fabbrica, alla famiglia che si era assottigliata , Fernando riempiendosi di debiti comprò una casa a Cesa. Anche lui trovò lavoro in fabbrica insieme ai figli. Invece il Papini non trovò nessuno disposto ad andare a mezzadria nel suo podere.

Vendette per qualche milione il podere a dei tedeschi convinto di fare un affare.

Oggi c’è un agriturismo con la piscina e il campo da tennis.

1 commento:

vannuccini lido ha detto...

racconto molto bello e veritiero io sono nato prima di te e da quando i ragazzi ci lavavano nel catino davanti al focolare diciamo che la cosa l'ho un po vissuta anche se non che la mia famiglia sguazzasse nell'oro ma da mangiare non è mai mancato. Pensa anche io andavo al mercato con la nonna a vendere i polli perche sicuramente un gelatino ci scappava, quando facevo le elementari con 5 lire ne facevano uno enorme e quando ho fatto il servizio militare a Palermo con 100 lire si mangiava un primo un secondo e il dolcetto con il caffè in fin dei conti non si parla di anni luce ma di appena 42 anni fa comunque brava complimenti ciao Lido