I miei zii avevano un maglificio al piano terreno della casa dove abitava la mia famiglia e la loro. Io ero la più grande, mia cugina e mia sorella avevano un anno meno di me poi c’era la cuginetta piccola, ma lei era fuori dai nostri giochi. Passavamo pomeriggi interi a giocare nel magazzino accanto al laboratorio dove venivano tenute le scorte di lana. I nostri divertimenti erano sacchi pieni di matasse di lana, scatoloni di maglie dove nascondersi o saltare quasi indisturbate, “tuti” da impilare, abbattere, lanciarsi contro. I “tuti” sono la parte interna dei coni di filato, una volta terminato il filo restava un’anima di cartone che poi veniva di nuovo ricaricata con il filato. In un macchinario chiamato “bobinatore” veniva messa la matassa di lana che un motore faceva girare e contemporaneamente il filo si avvolgeva nel cono dopo essere passato tra due dischi di cera. Un asticella faceva in modo che il filo si avvolgesse in tutta la superficie del cono, in modo che la bobina fosse regolare. Spesso l’asticella non funzionava e noi potevamo arroccare il filo tenendolo tra le dita mentre il cono girava. La difficoltà consisteva nell’evitare che il filo si rompesse stringendolo troppo o che il “ tuto si cacasse sotto”, cioè che il filo uscisse fuori dal cono.
Un altro lavoro che ci veniva affidato era “fare i pacchi”, cioè dovevamo piegare le maglie in pacchi di venti, dieci per verso. Oppure tagliare l’etichette che poi venivano cucite con la macchina rammagliatrice. Poi preparavamo i sacchi per Ferruccio. “Ciuccio” era il cenciaiolo che veniva a ritirare gli scarti della lana. Il suo arrivo generava un misto di curiosità e timore. Aveva un braccio ed un moncherino che teneva coperto con una manica cucita all’estremità. Arrivava spingendo una bicicletta dove erano già appese le pelli di coniglio ed altri scarti. Con l’unico braccio che aveva caricava nella sua bicicletta i sacchi con i ritagli di lana e ripartiva.
Mentre crescevamo diventava sempre più interessante stare nel laboratorio dove lavoravano alcune ragazze del paese. Stare lì ad ascoltare le loro chiacchiere era diventato più affascinante che saltare negli scatoloni . Lavoravano a cottimo quindi non c’era molta severità, la radio era sempre sintonizzata su Radio Montecarlo e il cicaleccio continuo. Il lunedì era la giornata più piacevole perché c’era da ascoltare la cronaca del fine settimana passato a ballare. Proprio a due passi, nella Casa del Popolo, c’era una sala da ballo molto frequentata. Le donne non pagavano quindi ci andavano in molte e, come il miele, attiravano altrettanti mosconi paganti anche da paesi lontani (ed erano i maschi più ambiti). Addirittura dai paesi vicini organizzavano con dei furgoncini un servizio di taxi per le ragazze. La sala non aveva niente di speciale, era un grande locale rettangolare dove su un lato c’era un leggero rialzo dove si appostavano le mamme per controllare le figlie ed in fondo il palco con il complesso che suonava rigorosamente dal vivo. Credo che un’intera generazione della Val di Chiana si sia fidanzata in quella sala, sempre sotto gli occhi vigili delle mamme.
Se le ragazze avevano conosciuto qualcuno di interessante si capiva subito leggendo le sedie. Nel laboratorio c’erano delle sedie di vilpelle celestina dove la biro scorreva morbida sopra. Cuori trafitti con le iniziali erano la decorazione preferita, ma c’era anche chi osava scrivere un nome intero. Memorabile fu la cotta di Antonella per tale Gabriele, se vado a controllare dopo 40 anni credo di riuscire a trovare ancora qualche graffito. Per noi bambine sono state di sicuro un modello da imitare, ricordo che anche i miei gusti canori erano influenzati da loro. Non c’erano più i dischi che piacevano alla mamma da far suonare dal mangiadischi, ma la radio con Awanagana e le canzoni dei Nomadi e dei Pooh. Piano piano si fidanzarono tutte e divenne meno interessante stare nel laboratorio. O forse ero io che tra un filo di lana e l’altro ero cresciuta.
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