Anna, la fronte appoggiata al vetro della finestra, guardava con invidia i ragazzini che giocavano a campana in cortile. Con un gesso rubato a scuola avevano disegnato la “casa “ con le caselle. Immaginava le loro risate nel caldo pomeriggio di primavera romana quando un compagno perdeva l’equilibrio. C’erano anche le sue amiche con le quali avrebbe potuto chiacchierare un po’. Ormai aveva rinunciato a chiedere alla mamma di farla scendere a giocare con gli altri. Era orgogliosa Anna e preferiva non chiedere che sentirsi dire un NO. Da quando vivevano a Roma era segregata in casa, eccetto la scuola, poteva uscire solo con la mamma e quasi quasi rimpiangeva il paese in Abruzzo dove era nata. Lì poteva scorrazzare libera, non aveva il fiato della mamma sul collo che la controllava ad ogni passo. Il prossimo ottobre avrebbe frequentato il liceo e sperava che questo significasse un po’ di libertà. Aveva provato a far intercedere il papà ma anche quello era stato un inutile tentativo. Lui era sempre al lavoro e quando non c’era era la mamma che comandava.
Venne l’estate, l’ultima estate da bambina , passata in Abruzzo. Lì ritrovò la libertà di uscire per le strade acciottolate, di sedersi con Wilma e Fiorella, le sue cugine, a ridacchiare e parlare sulle panchine di pietra.
Anche per loro era l’ultima estate, nonostante fossero coetanee presto avrebbero cominciato a lavorare. Ai loro occhi Anna era una privilegiata, viveva a Roma e sarebbe andata al liceo. Loro al massimo avrebbero potuto aspirare a fare le magistrali, il liceo si accompagnava alla parola Università, vocabolo da non associarsi a ragazzine di montagna. Fiorella e Wilma non conoscevano la solitudine di Anna, la immaginavano felice a spasso per Roma, a sospirare davanti alle vetrine del centro, o dentro ad un cinema con i suoi amici. E Anna questo lasciava credere. Da tempo si esercitava con la fantasia tenendo un diario, ma non un diario vero, il diario dei suoi sogni, delle sue speranze, raccontati come fatti avvenuti, una sceneggiatura immaginaria di una ragazzina che aveva 14 anni nel 1967 e che precorreva libertà ancora lontane da ottenere.
L’estate passò in fretta e con le vacanze finirono anche i pomeriggi al giro per il paese e le chiacchiere con gli amici. Il primo ottobre Anna cominciò la sua nuova vita al liceo. Aveva discusso con sua madre che l’aveva obbligata ad indossare la gonna a pieghe e i calzettoni bianchi.
Aveva sperato che allentasse un po’ il controllo, almeno con i vestiti. Arrivò a scuola con gli occhi rossi, aveva pianto dalla rabbia e dall’umiliazione di presentarsi a scuola vestita come una bambina, ma non c’era stato niente da fare. Per fortuna in classe non conosceva nessuno, cercò un banco libero e si sedette. Sperava, e al tempo stesso temeva, di restare da sola. La scuola non la preoccupava, se l’era sempre cavata alla grande sui libri, erano gli altri a farle paura. Paura di non riuscire a farsi accettare, di essere presa in giro per i suoi vestiti, per la sua famiglia modesta. Anche se in quel momento avrebbe voluto essere orfana.
Alzò il capo quando sentì aprire la porta, pronta ad alzarsi in piedi all’entrate del primo insegnante. Invece era solo una ritardataria, una biondina con una gonna più corta della sua di almeno 30 centimetri, che dopo essersi guardata intorno, puntò sul suo banco, per la verità l’unico rimasto libero. La biondina la squadrò e con un sorrisetto le disse “ Scusa ma ho sbagliato scuola? È il liceo Albertelli questo?” “Nessuno ti ha detto di sederti qui, se non ti piace” ribattè pronta Anna.
E questo fu l’inizio di una grande amicizia fra due ragazze che niente avevano in comune, all’infuori di tante pagine bianche su cui scrivere il loro futuro.
Sara godeva di una libertà inimmaginabile per Anna, libertà di vestirsi come le pareva, di uscire senza fare la domanda in carta bollata, domanda che spesso veniva rispedita al mittente.
Sara insegnò ad Anna a truccarsi, le portava i suoi vestiti ed il bagno della scuola divenne il camerino di una trasformazione. Piano piano Sara si fece accettare in casa di Anna, in questo caso era lei che si lavava il viso e metteva abiti sobri. I suoi genitori erano insegnanti e questo facilitò l’accettazione da parte della mamma di Anna che permise orari più elastici e uscite più frequenti. E quando si temeva un rifiuto, c’era sempre una ricerca da fare a casa di Sara.
Gli amici di Sara, ed ora anche di Anna, erano figli di professionisti, le famiglie giuste da frequentare, mica come i ragazzini che solo qualche mese prima giocavano nel cortile del palazzo.
Anna continuava a tenere il suo diario, ma ora aveva delle cose da raccontare e alle fantasie si stavano sostituendo le cronache vere di un’adolescente che aveva rotto la campana di vetro e stava scoprendo il mondo e i ragazzi.
Si stava avvicinando l’estate e quindi le vacanze in Abruzzo. Per la prima volta Anna non aveva poi così voglia di andarci, avrebbe dovuto indossare di nuovo gli abiti della brava ragazza, non ci sarebbe stata Sara ad aiutarla. I genitori dell’amica l’avevano invitata al mare con loro ma non c’era stato niente da fare, non aveva ottenuto il permesso e quindi non le restava che preparare le valige con le sue vecchie gonne a pieghe, per fortuna era cresciuta e non erano più così lunghe.
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