Racconti dietro l'angolo

Piccole storie per raccontare

sabato 27 ottobre 2007

Il mulo

Per coprire con un velo di mistero la sua origine incerta, raccontava di essere stato accompagnato all’orfanotrofio con una lussuosa carrozza da una elegante signora. Sicuramente lui era il figlio illegittimo di una nobile e di un servo e quindi nelle sue vene per metà scorreva sangue blu.

Di sicuro naturalmente non c’era niente, era uno dei tanti “bastardi” abbandonato a fine secolo alla generosità di qualche istituto.

Fu anche fortunato, appena grandicello trovò una famiglia che si occupò di lui, ma non fu abbastanza degno da prenderne il nome e quindi si portò dietro quello dato nell’istituto, che ricordava l’ora del giorno in cui era stato trovato fuori dalla porta. Ma del suo cognome se ne servì poco, per tutti lui era “Il mulo”. Aveva un forza non comune grazie alla quale si ritrovò un mestiere assicurato: il barrocciaio. Con il suo carro trasportava tutto quello che poteva essere trasportato, non aveva problemi di peso, come lui non c’era nessuno e, quando non ce la faceva, al nostrano Braccio di Ferro, un bel gotto di vino restituiva la forza.

In fin dei conti non era messo peggio di tanti altri,in un epoca dove si era ricchi o poveri aveva un lavoro che gli consentiva di campare, un tetto, una salute di ferro ed era sicuramente un bell’uomo. Alto sopra la media, il fisico asciutto, un volto dai lineamenti decisi e fieri ma addolciti da un paio di occhi azzurri come acquemarine.

Non sapeva chi erano i suoi genitori, ma questo non aveva molta importanza, con la storia della contessa e della carrozza aveva creato intorno a se un alone di mistero che, tra gente così semplice , aveva aumentato il suo fascino. Non ci vide niente di strano a mettere gli occhi sulla ragazza più carina del paese, povera era povera più di lui, quindi tante pretese non poteva averle. Ed infatti non le ebbe. Intimorita dalla prepotenza e dalla caparbia del Mulo o ammaliata dal suo fisico, Argenta lasciò il banale fidanzato e accompagnò all’altare Guglielmo.

Gli anni trascorsi in istituto gli avevano insegnato la legge del più forte, e , su queste norme, aveva forgiato il suo carattere. Aiutato da un fisico possente, impulsivo e prepotente di carattere, erano in molti a temerlo. Nessuno, però immaginava i pensieri e le inquietudini che turbavano il giovane. Il rifiuto materno aveva intaccato senza rimedio l’autostima prima del ragazzo, cresciuto tra le prepotenze dei coetanei e dei precettori dell’orfanotrofio, poi dell’uomo, vissuto in un ambiente dove l’ignoranza faceva da padrona. Da qui nasceva il suo bisogno di farsi accettare e perché no, di emergere tra la massa di poveracci, quasi una sorta di rivincita alla sua origine sconosciuta. Il mezzo per raggiungere la sua meta non importava, poteva essere l’arroganza come poteva essere fare il buffone all’osteria.

Per un misterioso motivo non fu chiamato alle armi durante la I guerra . Questi anni trascorsi a casa gli portarono sei figli e, in un periodo di carenza di uomini vicino casa, non gli mancarono altri letti da scaldare e donne da consolare.

Argenta sopportava pazientemente, in fondo in casa non mancava cibo sulla tavola e se non fosse stato per gli scatti d’ira del marito, non sarebbe stata troppo male.

I bambini crescevano bene e non ne persero nemmeno uno, in anni dove la selezione naturale era d’aiuto alla miseria. Riuscirono perfino ad andare tutti a scuola, perfino l’unica figlia femmina. Guglielmo nonostante l’amore crescente per il vino si occupava coscienziosamente del sostegno economico della famiglia, ma le sue prepotenze e scatti di rabbia erano sempre meno tollerati dai figli man mano che crescevano.

L’unica difesa di Argenta era abbassare il capo e rifugiarsi nel ricordo del vecchio, docile, fidanzato che non aveva avuto il coraggio di competere con il Mulo, lasciandola sola nella scelta del suo futuro.

Guglielmo sapeva la moglie e i figli lontani. Questa famiglia che tanto aveva sognato, non riempiva il vuoto degli anni di solitudine, anzi era motivo di un nuovo rifiuto. Il bambino abbandonato dalla madre era diventato l’uomo subito dalla moglie e rifiutato dai figli. Non si rendeva conto che era lui stesso che, con il suo comportamento, aveva istaurato questo meccanismo di rifiuto nei famigliari, a cui sarebbe bastato così poco per amarlo.La mancanza di comunicazione, il pudore di una generazione che non sapeva dichiarare il proprio amore li divise per sempre. L’alcool accentuava maggiormente il suo spigoloso carattere e la voglia di fare spacconate. E per questo trovava sempre gente che lo incoraggiava nella sua insana passione. L’ignoranza era di casa e c’era chi, senza tanti pensieri per la testa e qualche soldo in tasca, trovava il proprio divertimento nel provocare ed assistere alle leggendarie sbornie del Mulo. Nel paese tutti sapevano che beveva direttamente da una damigiana da 50 litri , sollevandola da terra per portarla alla bocca e qualche d’uno era disposto a pagarne il contenuto pur di vedere l’impresa.

Erano diventate memorabile le spacconate frutto dell’ebbrezza. Una volta, preso dalla rabbia con la sua somarella che si era bloccata in mezzo alla strada, la sollevò di peso e voleva gettare il povero animale scioperante nel pozzo. La somarella sopportava docilmente e lo stesso faceva Argenta, ma i figli man mano che crescevano se ne andavano di casa, garzoni di qualche padrone. Guglielmo fu sempre più solo, sempre più Mulo, sempre più spesso ubriaco.

Gli anni passarono e figli tornavano a casa raramente e, appena poterono, si fecero la loro famiglia, cercando di pensare il meno possibile allo scomodo padre.

Spirito libero, non aveva mai accettato ne padroni ne imposizioni, e per questo ,negli anni del fascismo, si schierò dall’altra parte. La sua fama di testa calda e un inspiegabile rifiuto per le armi non gli permise però di essere accettato nella lotta clandestina ma lo salvò anche dalle prepotenze dei vari fascistelli di paese che lo temevano.

La guerra finì, i figli tornarono alle loro famiglie, tutti tranne il più giovane, l’unico che ancora viveva in casa. Fu dato per disperso e questa perdita definitiva peggiorò ancora di più l’equilibrio dell’uomo.

L’alcool e la vita avevano minato inesorabilmente il fisico e la testa di Guglielmo che divenne sempre più aggressivo e non poteva più contare sulla sua grande forza che sempre lo aveva salvato dalle sue prepotenze.

Ormai riversava la sua rabbia su tutti. Quelli che prima si erano divertiti alle sue spalle, ora ne erano infastiditi e temevano anche azioni irrimediabili.

Come da fanciullo era stato scomodo per una madre che non aveva voluto o potuto crescerlo, ora era diventato scomodo ad una famiglia che lo aveva subito, ad un paese che lo aveva visto spavaldo e spaccone. Complici di non aver saputo leggere in uomo diverso, di non aver saputo colmare la sua atavica solitudine, furono complici nel volersi sbarazzare di lui. Fu chiuso in un manicomio.

E in manicomio morì molto vecchio, ignorato da tutti ma lasciando una singolare eredità genetica. Si dice che in ogni ramo della sua numerosa discendenza nasca un figlio ribelle, inesorabilmente destinato a “muleggiare”.

La parola muleggiare è stata inserita nel vocabolario domestico dei suoi pronipoti con un preciso significato: comportamento fuori dalla norma corrente, libero da condizionamenti sociali.

Ma era veramente così folle?

1 commento:

Anonimo ha detto...

Racconto che lascia un intenso strascico di tristezza, ma che ti fa anche riflettere su come certe cosi siano importanti e segnino l'intera nostra vita. Brava Lorella!
Ser Stefano