Seduto vicino al termosifone, in una delle prime sere d’inverno , Alberto se ne stava imbacuccato sotto innumerevoli coperte, sembrava un’araba con il burqa. Prima non soffriva mai il freddo, poi Genova è una città dove il freddo vero non esiste. Da quando era costretto all’immobilità lo prendeva dentro, un freddo che non era solo quello dovuto alla stagione che potevi vincere con una stufetta accesa, ma un ghiaccio che si estendeva alle viscere, al cervello. Stringendosi il plaid addosso con la mente ripercorreva il passato,sperando di scaldarsi al calore dei ricordi. Si susseguivano immagini passate,non la gioventù, ma i primi tempi della pensione, quando aveva ceduto il negozio di stoffe. La cessione dell’attività aveva permesso al gruzzolo accumulato in una vita di lavoro di crescere e, nonostante la magra pensione di commerciante, lui e Marisa potevano permettersi una vita tranquilla. I primi tempi fecero dei viaggi importanti, posti che quando erano giovani non era nemmeno immaginabile raggiungere. Poi piccole cose, passeggiate sul lungomare, qualche fine settimane in riviera. Una volta aveva persino portato Marisa al casinò a San Remo. E come si era divertita! All’inizio non c’era verso di farla entrare, quando le chiesero i documenti diventò rossa come un peperone. Invece si divertì, quando la pallina si fermò sul suo numero saltellava come una bambina davanti all’uovo di Pasqua!Fu quella sera che ritornando verso l’albergo si confidarono la loro fortuna. Non avevano problemi economici, qualche acciacco ma ancora stavano bene, la loro figlia era sistemata, potevano ora godersi lo scampolo di vita che gli restava. Quanti loro coetanei potevano dire altrettanto?A conferma della loro buona sorta tirarono in ballo conoscenti e parenti. I fogli strappati dal calendario si erano stesi su di loro, seppellendoli prematuramente. Erano morti tenuti in vita dai progressi della medicina e, se non erano malati, dal rancore e dall’acidità. Marisa si fermò di colpo, prese le mani di Alberto tra le sue e disse “ Promettimelo che non diventeremo così, che sapremo fermarci prima”.
Alberto cercò di svicolare, di cambiare discorso, ma non ci riuscì. Marisa continuò: “ Facciamoci questa promessa ora che siamo in condizioni di poterlo fare…… Quello di noi due che resterà “vivo” non permetterà che la vecchiaia umili l’altro, che la malattia gli tolga ogni dignità, promettimelo Alberto, promettilo” . “Si Marisa, te lo giuro” Le mani dei due si strinsero forte, mai erano stati così consapevolmente vicini.
Era venuto il momento di tener fede alla promessa? Era questa certezza che gli dava i brividi di freddo?
Il momento era arrivato da tempo, ma Alberto aveva nascosto la promessa in un angolino del suo cervello ancora così lucido nonostante gli 88 anni. Come mai stasera tornava così prepotentemente fuori?
Non ce la faceva più nemmeno lui, ecco perché. Erano due anni oramai che a causa dell’artrite era confinato su una sedia a rotelle. Quando stava bene pensava lui a Marisa che si era ammalata poco dopo il viaggio a San Remo. Ora dovevano dipendere per tutto dagli altri. Il bell’appartamento che era stato il loro guscio, la solida barca dove si rifugiavano nel mare della vita, ora era stato invaso. Si avvicendavano continuamente persone estranee, infermieri, medici, il personale delle pulizie.Avevano dovuto prendere anche una persona fissa in casa, una ecuadoriana, per non pesare troppo sull’unica figlia. Lei aveva la sua famiglia, il lavoro, era giusto così, non poteva rinunciare alla sua vita per accudire i genitori. Ma la loro era vita? Con questo interrogativo che turbinava nella sua mente, Alberto chiamò la ragazza dicendo che voleva andare a letto. Era un operazione che cercava di rimandare il più a lungo possibile. Non amava essere svestito, lavato, messo a letto come un bambino. Marisa anche il pannolone doveva tenere, ma per fortuna non se ne rendeva conto. O forse si?
Dopo la pietosa operazione era finalmente a letto, ma non riusciva a prendere sonno. Durante la notte lentamente, come un sogno che bussa piano alle porte del sonno, si andava formando un idea, un piano. La mattina tutto si svolse tranquillamente. Si alzò alla solita ora, ma volle che la ragazza alzasse anche Marisa. Alcuni mesi fa si era rotta un femore, come se non bastasse, e restava perennemente a letto. La fece mettere nella poltrona davanti alla finestra, le spalle alla
porta. Disse che voleva leggerle il giornale e vicino alla finestra c’era più luce. Dopo un po’ che leggeva il quotidiano alla ignara compagna chiamò la ragazza che li assisteva e gentilmente le chiese se poteva andare in edicola, il giornale era troppo tetro, voleva una rivista, un settimanale. La ragazza acconsentì, uscire non le dispiaceva, almeno avrebbe ripulito i polmoni dall’aria pesante che regnava perennemente nell’appartamento.
Alberto in breve preparò tutto, il rotolo di nastro adesivo di quello alto era nel cassetto di cucina, le compresse per dormire sopra il suo comodino. Mancava solo la corda. Vuotò un paio di cassetti e trovò anche quella. Tagliò una grossa striscia di nastro adesivo, non avrebbe sopportato di sentirla gridare, e le fu alle spalle. Marisa era debole, già faticava a respirare, non ci volle molto. Tornò in cucina e preparò un mucchietto di compresse. In quel momento squillò il telefono. Fece l’errore di rispondere, era la figlia
Grazia. Grossi lacrimoni cominciarono a scivolare sulle gote, balbettò qualche cosa di inconcludente.
In breve Grazia fu in casa e lo trovò al tavolo di cucina che piangeva silenziosamente, lo sguardo perso.

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